Dopo che tra Ordine e sindacato è avvenuto il “ricongiungimento”, il dibattito sulla professione e soprattutto sul destino dei giornalisti si è, nell’almeno apparente rassegnazione generale, azzerato. In questo immobilismo, l’unica speranza rimasta è mantenere il “tesserino”.

 

Il plumbeo silenzio nel quale da mesi, se non da anni, è precipitato il dibattito su giornalismo e giornalisti, nel senso di lavoro e non di hobby, la dice lunga sullo stallo assoluto, anzi sulle sabbie mobili nelle quali la professione ormai si trova: un tipo di situazione simile, se non identica, a quella un po’ pecoreccia ma esplicita scolpita dalla cosiddetta legge del menga. Secondo cui, in pratica, per non peggiorare la situazione è meglio osservare l’immobilità assoluta che agitarsi nella speranza di risolverla.
Per usare un’altra espressione cara a un mio ex direttore, in questo nostro mestiere il rischio di “girare a vuoto” è altissimo, nel senso che a fronte di nessuna prospettiva e di nessuna retribuzione degna di questo nome è anche diventato oggettivamente inutile darsi da fare. Chi a fine mese riscuote, si accontenta e gode un po’. Gli altri guardano, mortificati sia dal deserto economico che li circonda, sia dalle notizie succulente ma inevase che passano loro sotto il naso (per il vaglio e la scrittura delle quali nessuno del resto è disposto a tirare fuori più di qualche euro), sia dall’assoluta mancanza di orizzonti che tutto questo comporta.
Assisto inoltre alla progressiva, ma chiarissima rassegnazione, diciamo pure al piccolo imborghesimento, di tanti giovani colleghi fino ieri arrabbiatissimi sui principi e oggi rannicchiati un po’ vigliaccamente a difesa delle briciole che sono state loro ammannite da un sistema a dir poco smarrito e che condanna quasi tutti al limbo intercorrente tra la professione di fatto e quella di tessera, in una navetta senza fine.
Qualcuno di loro gonfia il petto fiero della raggiunta quanto “ricongiunta” qualifica di professionista, senza rendersi conto che quando si stava peggio si stava parecchio meglio, come il tempo non tarderà a dimostrargli.
La gran parte si esercita o si illude di fare giornalismo sui social, luogo di perfetta simulazione professionale: peccato che, appunto, si tratti di una palestra per simulazioni o, peggio, di una fiera delle vanità priva di contropartite commestibili.
Da parte sua, il mondo editoriale annaspa, perchè magari fa utili, ma di informazione ne fa sempre meno e la gente, del resto, sempre meno informazione compra, anche perchè ha dimostrato che gliene frega il giusto e che preferisce di gran lunga la fuffa dell’infotainment, altrimenti detta reclame più o meno occulta.
Ragionavo giorni fa di queste cose con un giovane amico.
Giovane, ma mica giovanissimo. Sui trentacinque, diciamo. Un’età in cui, ai miei tempi, come giornalisti o si era professionalmente ormai strutturati oppure si chiudeva bottega.
Ebbene, lui mi ha confessato che, la bottega, in realtà sta ancora cercando di aprirla: si arrabatta, fa un passo avanti e uno indietro, avvia una collaborazione che subito abortisce per mancanza di continuità, aspetta mesi per trovarne un’altra tra lavoretti extra, organizzazione di eventi, illusioni e disillusioni, disperata ricerca di “clienti” (quelli che, ma solo allo scopo di scantonare l’obbligo dell’assicurazione professionale, secondo l’OdG i giornalisti non avrebbero), incarichi spot pagati poco, a volte pochissimo, spesso nulla. Per non dire dell’effluvio di articoli gratis per siti, portali e sedicenti tali.
In pratica, tutto ciò che gli resta in mano dopo il duro lavoro è la qualifica: insomma la ragionevole speranza di non essere buttati fuori dall’Ordine qualora si incappasse nelle maglie di qualche malaugurata revisione dell’albo.
Ora ditemi voi se questa è vita o, almeno, giornalismo.