Si è parlato di “space farming” in un convegno all’Accademia dei Georgofili. Ma se il “trasferimento” del settore primario nello spazio è cosa da futuro anteriore, non lo è la creazione di “cellule produttive” agricole capaci di dare autonomia di aria, acqua e cibo alle astronavi in viaggio per Marte.

Da bambini avevamo immaginato che nel XXI secolo ci saremmo alimentati con pasticche al gusto di pastasciutta e con cremine al sapore di pollo arrosto. Accanto alle automobili a cuscinetto d’aria, i cartoons dei Pronipoti ci facevano sognare pietanze futuribili, dal contenuto sano ed energizzante, ma misterioso.
Invece domani – un domani prossimo, diciamo tra vent’anni – gli astronauti in viaggio verso Marte o in orbita intorno alla terra potrebbero davvero alimentarsi non solo di pane “fatto in casa“, cioè nello spazio, ma realizzato con farine prodotte sull’astronave medesima, macinando il grano seminato e raccolto negli “orti-serra” della stessa astronave.
E non è tutto. Grazie alla messa a punto di un sistema in grado di rigenerare biologicamente i rifiuti (anidride carbonica e deiezioni umane compresi) e di ricreare così artificialmente il ciclo biologico che esiste in natura, le navi spaziali potrebbero dotarsi di un’autonomia alimentare prossima al 100% e di produrre anche l’acqua e l’aria indispensabili alla sopravvivenza dei passeggeri alle prese con lunghi viaggi interplanetari.
Qualcuno potrà osservare che, forse, l’espressione space farming, cioè “agricoltura spaziale“, non è perfetta per descrivere ciò di cui stiamo parlando. E che non consiste appunto, come si potrebbe credere, nella produzione extraterrestre di derrate alimentari destinate al nostro pianeta, bensì di un sistema pensato ad hoc per il sostentamento a medio termine di navicelle orbitanti, astronavi e basi spaziali.
Il che forse sposta un po’ il discorso, ma certamente non lo priva di fascino.
Il primo ad ammettere di averci giocato un po’ su è proprio Giacomo Pietramellara, professore associato presso la Facoltà di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università degli Studi di Firenze e coideatore, assieme al collega Stefano Mancuso, ordinario di Scienze delle Produzioni Vegetali, del Suolo e dell’Ambiente Agroforestale, nonchè direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV), della giornata di studi dedicata le settimana scorsa all’argomento dall’Accademia dei Georgofili.
“Il grande numero di tematiche che afferiscono allo studio dello space farming – dice Pietramellara – rendono questa disciplina una vera “palestra delle scienze biologiche”, che finalizza gli studi sulla funzionalità dei suoli estremi e sugli accorgimenti da considerare nella attivazione e mantenimento dei principali cicli dei nutrienti nel suolo, per creare e mantenerne la fertilità. Di interesse notevole risulta essere anche la gestione dei rifiuti delle future basi spaziali, che attinge dagli studi di impatto ambientale e gestione delle discariche ed alle tecniche di smaltimento dei reflui organici. Vanno considerati poi gli studi legati all’adattamento delle comunità microbiche alla ridotta gravità, con riflessi sulla umidità del suolo e la circolazione della soluzione tellurica. Stesso discorso – continua – vale per le piante con adattamento a stress termici, diversa concentrazione di CO2 e ridotta gravità. Le piante, oltre ad essere un alimento, assumerebbero anche il ruolo di utilizzatori di CO2, produttori di CO2, fitodepuratori di acque reflue ed anche biosensori sia del suolo che della qualità dell’aria“.
Fondamentale per la popolazione mondiale (9,5 miliardi previsti nel 2050, secondo le stime FAO), gli fa eco il president dell’Accademia, prof. Franco Scaramuzzi, resta l’aspetto relativo al soddisfacimento delle esigenze alimentari che possono rendere di estremo interesse gli studi sulle piante geneticamente modificate, dei microrganismi (funghi, batteri ed alghe) come substrato alimentare”.
Il che, tradotto in pratica, cosa sarebbe?
Ad esempio il fatto che già dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, quando si vagheggiava un prossimo sbarco su Marte, la ricerca ha messo a punto in Usa una varietà di frumento nano (20 cm di altezza) capace di dare alte rese in spazio ridotto. Lo stesso dicasi per una specie “tascabile” (anzi, “spaziabile“) di pomodoro, in grado di svilupparsi in ambienti molto angusti e non a caso ribattezzato microtom (cioè microtomato). Coltivazioni analoghe sono state fatte, ovviamente irraggiate da pannelli solari, sulla navicella russa Mir.
“Non sono però ancora state compiute, un po’ per l’effetto del rallentamento della ricerca legata alle attività spaziali, un po’ per la crisi economica, “prove in campo” vere e proprie – sottolinea Luigi Cattivelli del Centro Ricerca Genomica di Fiorenzuola d’Arda – ma solo simulazioni in piccola scala. Qiindi è difficile al momento ipotizzare quanto e quando la teoria possa trasformarsi in pratica: sebbene si consideri che bastino 100 mq di coltivazione intensiva a produrre il 100% del fabbisogno di ossigeno e l’80% del cibo necessario alla sopravvivenza di un uomo per un anno, l’obbiettivo più difficile da raggiungere è la certezza che, una volta nello spazio, il suolo rimanga effettivamente sicuro e produttivo”.
I tempi? Se la comunità scientifica è d’accordo nel dire che non è realistico pensare, nei prossimi cinquant’anni, a una colonizzazione umana di altri pianeti finalizzata alla produzione di derrate alimentari per gli abitanti della terra, il discorso è diverso per l’ipotesi di “orti spaziali” capaci di produrre aria e cibo per chi abita nello spazio: nell’arco di un quarto di secolo il sistema, sostengono gli scienziati, potrebbe già essere “testabile” sulla luna o qualche vicino pianeta.
La “Dinner in Luna City” per la notte di San Silvestro del 2019, profetizzata nel 1988 dal fisiologo americano Frank Salisbury, potrbbe essere più vicina.