E’ nelle sale “Nico, 1988”, il film sugli ultimi anni di vita dell’ex musa dei Velvet Undeground. Una pellicola che però non c’entra quasi nulla con il r’n’r e nulla con i VU. E’ un film livido, toccante, triste. Alla realizzazione del quale ho dato un minuscolo contributo.

 

Vi avviso: non è un film sul rock and roll e neppure sulla musica. Casomai è un film dominato dal suono della sconfitta, quello sordo e cupo che nel 1945 arrivava dalla lontana Berlino in fiamme alle orecchie della piccola Christa.
E’ invece un film sul crepuscolo. Infatti è crepuscolare, livido, notturno, malinconico, irraggiato di luci al neon riflesse sulla formica, su letti sfatti, su piatti da lavare, sui lineamenti scavati di gente comune e un po’ smarrita.
Nico, 1988” racconta gli ultimi due anni di vita di Christa Paffgen, in arte Nico, già musa ed icona dei Velvet Underground, morta quell’anno per una caduta di bicicletta mentre era in vacanza a Ibiza.
Una morte assai poco rock, la sua, per una che il rock e certi anni ’60 li aveva davvero vissuti tutti e piuttosto intensamente tra moda, cinema e musica e poi se li era lasciati alle spalle: un po’ per l’anagrafe, un po’ suo malgrado, un po’ per scelta, un po’ per necessità, un po’ per decorrenza dei termini.
Fortunatamente, però, di quella pericolosa retorica in questa pellicola non c’è traccia. Ed è il motivo per il quale essa piacerà a chiunque, lasciando deluso forse solo e proprio chi vorrebbe trovarci a tutti i costi il pulviscolo di un’eroina bruciata nel brodo del proprio mito.
Un mito che nel film, diciamolo, in effetti aleggia. Ma come il rigurgito di una cattiva digestione, un gas venefico, una gabbia che Christa per prima (non a caso da tutti chiamata Nico, nonostante le sue rabbiose insistenze per essere chiamata col vero nome) tenta ogni tanto di rompere, senza tuttavia mai riuscirci del tutto. Perchè la lotta è impari. E anche in questo sta una parte del suo fallimento. E’ il mito grazie al quale, in momenti di difficoltà finanziaria, Christa e la sua band, perduti in tour erratici, ricevono ospitalità in albergo o in casa di antichi fan adoranti. Ma si tratta di hotel e di dimore come lei, sfioriti, e di scritture in luoghi improbabili, piegate a una vita on the road di cui la donna, prima dell’artista, appare in balia. Come dell’eroina, della malinconia, dei rimpianti e dei sensi di colpa che l’avvolgono quotidianamente.
E’ insomma un ritratto verace, bello, spigoloso e molto umano quello scritto e diretto dalla regista Susanna Nicchiarelli, perfino sorprendente a volte nella sua impietosa asciuttezza. Bravissima Trine Dyrholm nella parte di una protagonista costantemente piegata su se stessa ed eppure non vinta, ostaggio delle proprie ossessioni e dei propri vizi, ma convinta al contempo, nonchè illusa, di padroneggiare un’arte propria. Bravo anche il coprotagonista John Gordon Sinclair nei panni di un Richard ora manager, ora padre, ora amico, ora innamorato deluso.
Nico, 1988” è un film lento, invernale, intriso dello stesso freddo pungente dei camerini spogli e gelidi frequentati dai musicisti. Un film a tratti commovente ma non piagnucoloso, avvincente ma non avventuroso. Certamente non un film di cassetta, ma destinato, credo, a quello che qualcuno ama chiamare “culto“.
Chiudo con una nota personale.
Alla realizzazione di questo film ho dato anche un minuscolo contributo. Negli anni ’80 ho visto più concerti di Nico e l’ho anche intervistata. La produzione mi ha chiesto di raccontare le mie impressioni di allora per ricostruire lo stato d’animo, il comportamento, l’abbigliamento di lei. Ovviamente l’ho fatto volentieri. Quella che ho ritrovato sullo schermo è una persona simile, ma non identica a quella che avevo conosciuto. Ricordavo una Nico più dura, simile a un’aristocratica decaduta, stropicciata ma non assente, più aspra forse.
Va da sè che l’ho amata, comunque, moltissimo.