Lavoro autonomo e libera professione non sono la stessa cosa. Tra partite iva vere o finte c’è un abisso. Freelance e precario sono figure opposte. Tradurre ciò in proposte congressuali toglie il sonno ai delegati dalle idee confuse (con chiosa in calce).

Manca meno di una settimana al congresso Fnsi di Chianciano e l’entropia, come si dice in questi casi, cresce.
Siccome però non è un congresso uguale agli altri (il perchè è noto: basta ripensare al contratto firmato di nascosto in giugno, ai malumori che ha suscitato e al referendum-farsa che l’ha seguito), anche l’entropia è un po’ diversa dal solito.
Diciamo che la consueta frenesia topesca, o formichesca, precongressuale, tutta votata alle consultazioni politiche e all’intreccio di accordi di corridoio è stata in parte sostituita dal vagare un po’ smarrito di molti alla ricerca di argomenti originali e possibilmente idonei a giustificare la propria presenza all’assise.
L’argomento che contraddistinguerà l’appuntamento congressuale, e che incomberà sui lavori come una tempesta in procinto di scatenarsi, sarà infatti un grande sconosciuto: il lavoro autonomo.
Per due ragioni: primo, è il nervo non solo lasciato più scoperto, ma letteralmente ferito dall’improvvida manovra contrattuale e dal pasticcio dell’equo compenso, con relativa coda di giusti rancori da parte dei diretti interessati; secondo, i cosiddetti autonomi (partite iva vere e false, cococo, collaboratori esterni, precari, etc) costituiscono ormai i 2/3 della categoria giornalistica, con una quota destinata ad aumentare ulteriormente.
Impensabile che una massa di queste dimensioni, e con i suoi problemi, possa continuare ad essere ignorata da un sindacato pessimo, agonizzante, primo responsabile della situazione e niente affatto rappresentativo (si calcola che l’Fnsi associ meno del 10% dei non contrattualizzati italiani), ma pur sempre l’unico che, in Italia, esiste per i giornalisti.
Il problema è che a lamentarsi e a pontificare sui mali teorici siamo tutti bravi, ma a trovare soluzioni organiche, capaci di dare rimedi concreti a problemi altrettanto concreti, lo siamo molto meno. Figuriamoci a proporle nero su bianco.
Per una semplice ragione: la cura dei mali profondi richiede una conoscenza profonda dei mali. E questa conoscenza – che implica una miscela di esperienza, varietà di punti di vista e di competenze multidisciplinari, consapevolezza dell’esistenza di situazioni apparentemente uguali ma sostanzialmente differenti – ce l’hanno in pochi.
Insomma, il bubbone del lavoro autonomo è così fittamente vascolarizzato che per curarlo la buona volontà non basta e un’incisione grossolana rischia, se praticata, di nuocere al paziente fino a ucciderlo.
Ora, finchè si tratta di discettare dell’argomento su blog e social, è una cosa. Quando si tratta di esporsi pubblicamente in un congresso con proposte e documenti, è un’altra.
E qui comincia il panico dei delegati.
Molti dei quali si ergono a paladini dei non contrattualizzati, ma sanno tecnicamente poco della materia e quindi chiedono lumi qua e là, compreso a un (presunto) nemico pubblico numero uno della Federazione come il sottoscritto. Oppure scambiano l’esperienza personale, sebbene importante, con quella generale, riducendo la casistica a una somma di situazioni singole ma perdendo così di vista la complessità del fenomeno. Altri sono invece mestieranti sindacali che hanno smarrito da secoli il polso della realtà e vivono di ricordi di un mondo che non c’è più, ma non si schiodano. Gli steccati di corrente, partito, lista etc, che non facilitano la comunicazione e l’intesa tra i colleghi, fanno il resto. Il rischio è che alla fine le poche voci competenti rimangano inascoltate o coperte dal chiasso delle fazioni.
Ciononostante, qualcosa si muove.
Sono usciti in rete (qui e qui), in questi giorni, alcuni buoni tentativi di sintesi.
Che però, a mio parere, sono ancora lacunosi per quanto riguarda una tipologia di freelance quantitativamente meno esile di quanto si creda: i freelance-freelance, cioè quelli che hanno imboccato la libera professione non come ripiego in mancanza di un’assunzione, ma proprio come scelta di vita.
Si tratta di soggetti che, per esperienza, struttura e avviamento, rappresentano oltretutto il pilastro reddituale della categoria. E che hanno esigenze specifiche.
Specifiche ma tutt’altro che “strane“, come molti inesperti sindacalisti invece le giudicano, perchè spesso si tratta di cose “normali” per chi esercita una “normale” libera professione: adeguati profili assicurativi, previdenziali e fiscali come polizze ad hoc, studi di settore dedicati, detrazioni, esenzioni legate (o no) a fattori anagrafici, separazione a tutti i livelli tra partite iva vere e strumentali o false, coordinamento e/o accorpamento di strategie legali, tariffari orientativi omogenei, organi di rappresentanza.
Speriamo insomma che le istanze dei “veri” freelance non vengano travolte dalle giuste ma diverse e spesso opposte istanze dei “finti” freelance o dei freelance per necessità. Cioè, in sostanza, di chi libero professionista lo è solo di facciata.
Un aspetto su cui tanti volonterosi delegati al congresso dovrebbero forse cominciare a riflettere.

Ps: poichè più d’uno si chiederà, e molti l’hanno già fatto, come mai non riveli “segreti” o dia suggerimenti, peraltro sollecitati, sull’argomento, rispondo nel modo più semplice del mondo: li ho già dati. Plurime volte. Ad esempio su questo blog. Ce ne sono decine. Basta guardare. Poi sarebbe bello se fosse citata la fonte o mi si desse atto, ma non aspiro a tanto, nè mi illudo. Mi accontenterei di essere stato utile (non ai sindacalisti, beninteso, ma alla categoria).