Nonostante fosse solare a chiunque non avesse il paraocchi – e con buona pace delle irriducibili vestali del web – dagli Usa arriva una sentenza che pone una pietra tombale sulla falsa questione dell’informazione via internet: il blogger è giornalista? NO. Si cominci il dibattito.
Santi Bailor, al secolo Alberto Sordi, il protagonista di “Un americano a Roma”, l’aveva rovinato “una malattia”.
Gli Squallor, secondo la canzone, li aveva rovinati “il ‘68”.
Vanna Marchi e il mago Do Nascimento, invece, li ha rovinati l’anagrafe: sono nati troppo in anticipo sui tempi. E quindi troppo in anticipo hanno cominciato le loro truffe televisive, spacciandosi per ciò che non erano e finendo, così, nei guai.
Era il 27 novembre 2001, praticamente dieci anni fa. Oggi gli andrebbe molto più liscia: potrebbero infatti, senza rischi, aprire un sito internet e propalare le loro sciocchezze via blog.
Già, perché sembra che la rete abbia non solo il potere taumaturgico di intrattenere il popolo, rimbambendolo, ma anche di trasformare in lecito ciò che è illecito.
Ad esempio la diffamazione in “notizia” (vedi qui) e l’abuso di titolo professione in esercizio di un “diritto”. Pensate voi.
Questo almeno secondo la consolidata e un po’ ottusa morale corrente.
Poi, per fortuna, qualche giudice rinsavisce e rimette le cose al loro posto.
Sanzionando, sempre ad esempio, che “non basta una connessione internet per esercitare la libertà di stampa” e che pertanto non basta sproloquiare sul un blog per autoproclamarsi giornalista né per “fare informazione”.
Chi vuole intendere, intenda.
Chi non vuole intendere, invece, si legga (qui) la sentenza sul cosiddetto “caso Cox”: il caso di una tipa americana che, via internet, divulgava informazioni finanziarie “riservate” e che per questo era stata denunciata per diffamazione. Rifiutatasi di rivelare le sue fonti, è stata condannata dal giudice con questa motivazione limpida, chiara e piena di buon senso: la blogger Crystal Cox NON può essere considerata una giornalista (ciò che gli sarebbe valsa l’assoluzione) perché non era affiliata a nessuna organizzazione giornalistica, non aveva ricevuto un addestramento alla professione, non obbediva agli standard richiesti dal giornalismo, come la verifica dei fatti e il controllo degli articoli da parte di qualcun altro.
Se non è in grado di provare le sue accuse in altro modo che citando una fonte anonima, deve essere condannata a pagare un risarcimento di 2,5 milioni di dollari.
I burattinai dei (spesso lucrosi) bar sport allestiti in rete per sputtanare impunemente tizio e caio, i cultori dell’anonimato, i giustizieri del web nascosti dietro allo schermo del computer si rassegnino: fare informazione, cioè giornalismo, richiede di obbedire a certe regole di trasparenza e di rispetto della deontologia, avere un’adeguata preparazione, controllare le fonti, appartenere a un’organizzazione professionale (in questo caso l’apposito ordine o come si chiamerà se faranno la riforma), condividere con una struttura giornalistica la responsabilità della pubblicazione.
Basterà ciò a convincere le vestali della presunta liceità a 360°?
Non credo.
Ma quando le sentenze cominciano a far breccia nei luoghi comuni, è sempre un buon segno.
Speriamo sia almeno il sintomo di un’inversione di tendenza.