Una collega under trenta manda un commento al mio post di qualche settimana fa sull’equo compenso, a proposito dell’apparente scontro in corso tra nuove e vecchie generazioni di giornalisti. E ammette che, nei panni degli altri, le cose possono apparire molto diverse.
Giorni fa arriva il commento a un mio post di alcune settimane fa (qui), dedicato ai dubbi che cominciavo a nutrire a proposito dell’equo compenso, tema al contempo attualissimo e, ahinoi, noiosissimo, visto il tira e molla al quale (temo con esiti negativi) è sottoposto dalla solita cupola.
A scrivere era una giovane collega che, in sintesi, diceva: mi indigno quando mi vedo trattare dai giornalisti più anziani da sfigata, ladra di lavoro e petulante, se mi lamento degli spazi zero e dei compensi zero. Però, a pensarci bene, devo anche onestamente riconoscere che, guardando le cose dal loro punto di vista, non hanno tutti i torti. Non è bello, sebbene la colpa non sia nostra, assistere allo spettacolo di tanti coetanei disposti a tutto, i quali così facendo non si rendono conto di nuocere a se stessi.
“I problemi sono iniziati – scrive poi, testualmente – quando mi sono resa conto che senza soldi in tasca non si va avanti. In realtà l’ho sempre saputo ma nel tempo credo di aver acquisito più consapevolezza e quei pochi euro hanno iniziato a pesarmi come un macigno“. E ancora, nel breve scambio privato con il quale le ho chiesto se potevo fare un pezzo sulle questioni che sollevava: “In effetti il mio è solo uno sfogo, di quelli che butti giù quando ti trovi a un bivio e allora fare anche un po’ la vittima ti mette al sicuro da critiche e commenti pesanti. La verità è che nessuno mi ha mai costretta a lavorare in un determinato posto e ad accettare quella retribuzione. Sono io l’artefice“.
Cara Liza, sgomberiamo innanzitutto il campo da un equivoco: i professionisti (nel senso di professionali, cioè che svolgono l’attività giornalistica come fonte principale di reddito, e non in quello di iscritti all’elenco dei professionisti dell’albo) non è che siano infastiditi da o che disprezzino chi è alle prime armi, o lavora per pochi soldi o perfino gratis.
C’è solo la rabbia di chi vede tanti giovani sprecare il loro tempo a sgomitare in un settore in cui non c’è lo spazio nemmeno per uno spillo e in cui la spirale al ribasso è giunta ormai a un punto tale da consentire la sopravvivenza solo a chi lavora senza chiedere nulla in cambio. Insomma a chi fa volontariato camuffato da lavoro.
Nessuna rivalità dunque, nessuna concorrenza. E nessun furto di lavoro. Francamente non mi sento derubato di nulla se qualcuno cede gratis o per 3 euro un pezzo che io non cederei nemmeno per 50. E mica solo per orgoglio, supponenza o presunti complessi di superiorità: bensì per il semplice motivo che io, col mio lavoro, ci devo vivere. Se devo lavorare gratuitamente, per me è più conveniente non fare nulla, restare a casa.
Nulla, poi, di cui scusarsi. Mica è colpa tua se ti sei affacciata a questo lavoro quando la professione è agonizzante e, non a caso, l’unica dimensione che di essa sopravvive è quella dilettantesca, hobbistica, in cui insomma le cose si fanno pagando e non facendosi pagare.
E capisco benissimo la passione, l’entusiasmo, il sacrificio, le soddisfazioni, insomma tutto l’insieme dei sentimenti che tutti quelli che hanno cominciato (me compreso) hanno provato. Inclusi la frustrazione, i dubbi, la rabbia successivi.
Ma la risposta a tutto questo te la sei data da sola: “I problemi sono iniziati quando mi sono resa conto che senza soldi in tasca non si va avanti”. Appunto: un lavoro è tale se ti dà da vivere, altrimenti è un passatempo. E qualcosa pagato 3, 5, 10, 30 euro a pezzo – a prescindere dalla qualità e dalla passione che contiene – non ti dà da vivere.
Finchè si hanno 20, 25, 30 anni è giusto imparare, provare, farsi strada, dannarsi l’anima. Ma la vita a un certo punto presenta il conto e di fronte alle bollette da pagare (da pagare per sempre, come le rate del mutuo, l’inpgi, la spesa, etc) non ci sono passione o talento che reggano.
So bene che è scioccante arrivarci. E in tanti anni di carriera ho visto centinaia di colleghi, coetanei o più giovani, cominciare, illudersi, avanzare, superarmi anche di molto nel reddito e nella loro carriera di “autonomi”, salvo poi arenarsi dopo cinque o dieci o anche quindici anni e mollare tutto, cambiare mestiere perché “non ci si campa più”.
Solo che a 40 anni non è facile riciclarsi, dopo aver immolato la gioventù a inseguire un “sogno” che oggi come oggi è, credimi, irrealizzabile nel 99,9% dei casi. Con uno 0,1% affidato alla buona sorte o alle buone spinte (e nessuna delle due cose si compra).
E’ buffo, e triste al tempo stesso, vedere come le cose cambiano secondo i punti di vista.
Sì, molti caposervizio ci marciano, se ne fregano di mandare allo sbaraglio giovani volenterosi e un po’ ciechi, prendono il loro lavoro senza farsi troppi scrupoli. E’ uno dei nodi morali legato alla questione dell’equo compenso.
Ma mica è facile mettere alla porta la gente, rifiutargli gli incarichi, negare le speranze, quando molte persone sono, come scrivi tu, disposte a tutto pur di scrivere articoli: non solo di farlo gratis, ma di accollarsi perfino le spese!
Capisci perché la questione è complessa?
Se hai tempo e voglia, prova a leggerti il mio vecchio post dedicato proprio a questo tema (qui).
E magari riparliamone.