Gli ultimi rantoli della professione offrono inaspettati pertugi alla creatività e all’arte tutta italiana di arrangiarsi. Il problema è che sembra normale.

 

Era qualche tempo che qui non mi occupavo di questioni professionali.

Il motivo – dopo la farsa Inpgi e un volo della professione ormai così radente il suolo da rendere imminente un atterraggio molto brusco, se non il disastro – è che ero e sono molto scoraggiato. Al punto di non vedere speranze e quindi poco desideroso di sprecare ulteriore fiato.

Eppure, per altri versi, il sedicente giornalismo italiano non finisce mai di stupirmi per la sua anguillesca capacità di continuare a fingersi ancora tale, quando ormai è spesso tutt’altro.

Ho appena scoperto, ad esempio, una diabolica operazione di camaleontismo a mezzo stampa.

Più o meno funziona così.

C’è il collega Tizio che, come ormai quasi tutti, fatica a sbarcare il lunario. Si pone quindi, viste le ristrettezze (mi viene da dire comprensibilmente, almeno entro un certo limite, ma ormai sono buono), al servizio occulto di uno o più uffici di pr che, in cambio di articoli compiacenti sui loro clienti piazzati sulle più svariate e occasionali testate, gli passano sottobanco un sostanzioso quid ed altri benefici materiali. Quid e benefici, va da sè, che ricompensano abbondantemente la gratuità o quasi con cui Tizio cede i suoi scritti ai giornali.

Ma fin qui è tutta roba stravista.

Il bello viene poi.

L’intraprendente collega fa uno più uno e che s’inventa? Si ricicla, senza rinunciare alla qualifica e all’esercizio dell’attività giornalistica o presunta tale, intendiamoci, come consulente editoriale, in modo da aggirare ciò che resta di norme e controlli deontologici: poi mette insieme una redazione-service composta per il 20% di ingenui giovani e per l’80% di dipendenti e collaboratori dell’ufficio stampa ricordato prima. E, infine, si offre con tutta la struttura per realizzare i sogni di chi vagheggia di avere un proprio periodico, giornalino o newsletter: pacchetto completo.

Così il cerchio si chiude: la committenza è di bocca buona e non va tanto per il sottile sulla trasparenza dell’informazione nè sulla qualità dei contenuti. Lui, oltre a vantare sul colophon la pomposa patacca di consulente editoriale, fa lavorare, pagati dal committente ovviamente, quelli che in realtà fanno lavorare lui, in un’inestricabile matassa di marchette reciproche.

Non c’è posto ovviamente, in questo sistema centripeto, per giornalisti-giornalisti, cioè per gente che in buona fede scrive articoli di contenuto giornalistico pagati da editori-editori e letti da lettori-lettori che cercano notizie. Ci sguazzano però i mercanti e i semiabusivi (o abusivi del tutto), che invece possono pavoneggiarsi vedendo il proprio nome in bella evidenza sui colophon in veste di collaboratori, spesso con foto, e altrettanto spesso gratificati perfino con la qualifica farlocca di giornalista.

Naturalmente nessuno ha nulla da dire, nessuno ha nulla da eccepire, tutti fanno finta di non sapere o che tutto sia normale.

E’ il mondo del bordeline, dell’opacità elevata a metodo. Davvero fantastatico.

Peccato che sia vero.