Non contenti di offrirti compensi ridicoli e pagati ere geologiche dopo il dovuto, certi editori e i loro sodali dei cosiddetti “uffici amministrativi” (leggasi “uffici dilazioni artificiose dei pagamenti e aggiramento obblighi previdenziali“) se ne inventano ogni giorno una per procrastinare, o se possibile evitare del tutto, l’amaro momento del saldo.
Una delle più recenti è la “prefattura“.
Con la scusa, devo ammettere ben congegnata, di avere da parte di tutti i collaboratori e fornitori documenti omogenei per forma e contenuto, hanno avuto infatti la pensata di non restare inerti ad attendere il conto dei fornitori medesimi e pagarlo, come accade nel mondo normale, ma di prevenirli emettendo appunto essi stessi una “prefattura” che contenga nella quantità, l’ordine, la dicitura secondo loro giusti l’indicazione delle somme da pagare (onorario, imponibile, iva, ritenute varie, etc).
Ciò punta a un triplo scopo.
Il primo è esplicito: come detto sopra, ottenere fatturazioni uniformi.
Il secondo e il terzo sono invece occulti: a) far slittare al momento dell’emissione della “prefattura” (documento, lo ricordo, non dovuto nè fiscalmente previsto) l’inizio ufficiale dell’iter burocratico dei pagamenti, guadagnando così settimane o mesi di valuta, e b) sfruttare le immancabili (nonchè a volte maliziose, ne sono certo) difformità tra il proposto (da loro) e il corretto (dal fornitore) per creare malintesi o cortocircuiti artificiosi. Il cui fine e risultato, va da sè, è aggiungere tempo al tempo o addirittura prendere il malcapitato per stanchezza, inducendolo ad accontentarsi di cifre minori a quelle attese.
La riprova?
Facile, eccone una: se certi “sfasamenti” burocratico-fiscali sono forse possibili la prima o la seconda volta che si hanno rapporti di lavoro, non possono esserlo più quando uno collabora da anni e da anni spicca ad esempio fatture che includono il 2% dovuto dall’editore all’Inpgi2. Eppure, puntualmente, a ogni pagamento l’editore finge di sbagliare, omettendolo in prefattura e costringendoti così, altrettanto puntualmente, a interminabili carteggi per spiegazioni e rettifiche (facendoti oltretutto perdere ulteriori e costose ore di lavoro).
Qualcuno, non ultimi gli editori, obietterà che la colpa non è loro ma di contabili e impiegati ottusi o lavativi o incapaci.
Anche se fosse, la responsabilità di ciò è comunque dell’azienda.
E poi, lo dico apertamente, per esperienza so che assai spesso non è ottusità, ma complicità.
Morale: lavori e talvolta anticipi pure le spese, loro te le fanno fatturare e quindi tassare come fossero un compenso, poi concordi che ti paghino a tre mesi, che giocando coi festivi e le ferie diventano quattro, poi comincia il tira e molla della prefattura e si arriva al semestre. A questo punto o cedi e ti acconenti di incassare di meno, fatturando le cifre che dicono loro (ovviamente sempre inferiori al dovuto) oppure affronti con coraggio un ulteriore trimestre di carteggi prima di mettere le mani sull’agognato compenso.
Ah, dimenticavo: non si parla di migliaia e nemmeno di centinaia, ma spesso di decine di euro o anche meno.
Che, unitariamente, per l’editore sono spiccioli (ma cumulativamente no), mentre per il giornalista sono sempre pochi soldi che però vanno a contribuire a una pensione già miserrima e pure eventuale. E nei decenni, a forza di nichelini, si fanno i milioni.