La nostalgia è un sentimento intimo. O almeno riservato, da condividere tra i pochi che, caso per caso, sanno comprenderne il perché, la misura e lo spessore.
Insomma tutto il contrario dello spettacolo grossolano ai cui i social si e ci stanno assuefacendo. E che fa sembrare ricami di aristocratica finezza perfino certe trasmissioni tv venute fuori trent’anni fa con la tv commerciale, quando cantanti settuagenarie vestite di paillettes presero ad ancheggiare al ritmo di vecchi hit (ho fissa nella memoria, come un incubo, un’esibizione di Dino e di Wilma sul tema di “You can leave your hat on” trasformata per l’occasione in “Com’è bello lo strip”) per il pubblico dei pensionati.
Poi venne “I migliori anni”, quello su Rai1 di Conti, con l’aggravante di un successo, vero o simulato che fosse, di un pubblico anche giovanile.
Ma i social superano qualsiasi immaginazione.
Gruppi tipo “Noi, degli anni dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta, ottanta e novanta”, con foto che vanno dal nonno alla guerra d’Africa all’amministratore mascherato da Peppa Pig, con colonna sonora melensa (spiccano Procol Harum e Guardiano del Faro) e sfilze di insopportabili luoghi comuni che oltretutto, visto l’arco temporale quasi secolare abbracciato dalla congrega, di comune, nel senso di condiviso dai membri, non hanno assolutamente nulla, come nulla in comune posso avere gli ex diciottenni del 1960 con quelli del 1980.
Nulla, a pensarci bene, tranne una cosa: nessuno di loro ebbe internet.
Appunto.