Soundtrack: “Love is a train“, Willie Nile, live on Florence hills, 17/7/12.

Lui aveva visto Bo Diddley a Washington Square, poi ci siamo ritrovati con gli amici tra le vigne vicino a Firenze. E si è chiuso un cerchio che ha abbracciato parecchie persone. Compreso Jim Carroll e the people who died.

Difficile iniziare il post senza una nota personale (in fondo questo è pur sempre un blog, sebbene anche -zine, no?) e difficile, temo, anche chiuderlo con qualcosa che personale non è.
Dunque.
Nella top 100 del mio epos onirico giovanile (e non solo mio, credo) c’era il sogno di sentir suonare dal vivo e possibilmente da vicino le canzoni di alcuni dei miei musicisti preferiti. Nella top 30, cioè tra gli assai meno realizzabili, c’era quello di conoscere di persona i musicisti, parlarci, scambiarci delle idee. Nella top 5, ovvero tra quelli praticamente impossibili, c’era quello di essere chiamati sul palco a cantare con loro qualcuna di quelle canzoni.
Beh, ho dovuto aspettare quasi trentacinque anni ma ce l’ho fatta. E ancora quasi non ci credo.
Per salvaguardare la mia dignità personale ometto di linkare qui il filmato che ritrae la performance (ne metto tuttavia un altro assai più godibile), ma vi assicuro che salire accanto a Willie Nile, da lui personalmente invitati, e intonare il classico di Jim CarrollPeople who died” (da “Catholic Boy”, pilastro del NYC r’n’r), durante un concerto privato organizzato da un gruppo di amici (me incluso, è ovvio) per altri amici, mentre alle tue spalle la band sbriciola il silenzio della campagna fiorentina non ha prezzo.
Proprio non ne ha. No way.
Non ne ha al punto tale che ora, come temevo, è difficile continuare a scrivere e descrivere quello che è successo. Perchè il pensiero va alla canzone, alle correlazioni, ai sottintesi, alle coincidenze, alle circostanze, ai corsi e ai ricorsi, ai solchi profondi dei dischi, ai musicisti, a Willie, a Jim, a George, agli amici morti, newyorkesi e non, al St Marks Place, alla Bowery di allora e di oggi, a Alphabet City, al murale di Joe Strummer a Tompkins Square, all’odore di plastica degli studi radiofonici coi cartoni delle uova alle pareti, al calore delle cuffie sulle orecchie, alle dita sporcate di polvere compulsando LP da Contempo e al sentore di strada, pioggia e smog che c’era fuori, quel pomeriggio di novembre, quando avevo appena comprato – appunto – “Catholic Boy“.
Così, alla fine, il cerchio si chiude. O è bello immaginare che si chiuda, non so. In fondo anche Willie Nile è un catholic boy e lo sono pure, se non altro per ragioni etniche, quelli della band: Jorge Otero, Johnny Pisano e Alex Alexander.
Forse non pregano tutte le sere per un’ora, come fa il babbo novantaquattrenne di Willie. Ma è lo stesso.
Ognuno è gratificato dai propri piccoli miracoli: lui ha visto Bo Diddley in Washington Square, io ho visto lui in Piazza della Signoria e ci ho cantato insieme tra i vigneti, vista Arno.
Grazie a chi ha permesso che questo succedesse. E cioè Ausonio, Cocchiere, Banana, Ventura, Beck, Elisabetta e Gabriele.