Dopo la “Carta di Firenze”, over 65 all’offensiva: no ai “carabinieri in redazione” e alla delazione come forma estrema di etica professionale. Gli altri: avete una ricca pensione ma difendete solo i vostri privilegi, mentre gli altri affogano. Un problema che nasce lontano (ma si annida al vertice?).

Diciamo la verità: c’era da aspettarselo.
Un po’ perché la miopia (non solo quella dovuta all’età) dilaga, un po’ perché non c’è mai fine alla malizia e un po’ anche perché, ammettiamolo, se si lancia un sasso in piccionaia, è normale e ci si attende che i piccioni volino. Infatti sono volati.
E non c’è dubbio che la “Carta di Firenze” – il documento (il testo qui) recentemente approvato in via definitiva dall’OdG, che sancisce sanzioni disciplinari per i comportamenti scorretti tra colleghi all’interno delle redazioni giornalistiche, ivi inclusa la presenza di giornalisti andati in pensione ma rimasti fisicamente presenti in quelle sedi – fosse un proverbiale sasso (sebbene la metafora più adatta per fotografare la situazione sarebbe stata forse sì quella del sasso, ma nelle limacciose acque dello stagno professionale).
Insomma, che è successo?
Semplice: è successo che i giornalisti pensionati, in parte in buona fede e in parte meno, si sono sentiti attaccati dai “giovani” propugnatori dalla Carta e sono passati al contrattacco. E, sul loro sito istituzionale (qui), hanno pubblicato un articolo al vetriolo la cui sintesi è la seguente: “(La Carta di Firenze è) una sorta di introduzione dei carabinieri in redazione, o, se si preferisce, il ricorso alla delazione come forma estrema di etica professionale”. Fuoco alle polveri, dunque.
E dall’altra parte, di conseguenza, via alle bordate: “Vergogna, vogliono continuare a lavorare ma riscuotono la ricchissima pensione, togliendo così lavoro ai giovani”.
Ne nasce quello che ha tutte le apparenze di un banale scontro tra generazioni ma che, invece, è l’ennesimo sintomo del malessere profondo e delle contraddizioni in cui ormai da anni la professione si dibatte, preda di questioni irrisolte e lasciate troppo tempo a covare sotto la cenere.
Il problema insomma non è affatto manicheo come potrebbe sembrare. E’ anzi è molto articolato. E al suo interno è opportuno distinguere tra la posizione della base, cioè della massa dei colleghi, e quella dei loro rappresentanti nel Consiglio Nazionale dell’Ordine, perché è lì che (in un groviglio di interessi, poltrone, sinecure, gettoni, baronie, etc) “si formano” le opinioni poi trasmesse ai peones.
Essendo il sottoscritto tra color che son sospesi tra le due categorie contendenti – in quanto, ahimè, non più giovane, ma ancora parecchio lontano dalla pensione, ammesso che con l’aria che tira a me ne tocchi una – mi sento di poterne parlare con distacco e con equilibrio. Anche perché non è la prima volta che me ne occupo.
Premessa necessaria: nemmeno ai primordi della mia carriera di giornalista freelance ho mai visto i pensionati come nemici e neppure come concorrenti, bensì come colleghi verso i quali avevo e dai quali pretendevo la stessa correttezza degli altri. In sostanza, non avevo nulla da eccepire se un giornalista over 60 svolgeva la mia stessa attività. Mi bastava che non facesse sponda sul suo reddito garantito (la pensione, appunto) per tirare al ribasso sui compensi professionali, ovvero mi facesse concorrenza leale sulla qualità e non sleale sulle tariffe. Una posizione che mantengo anche adesso.
E mi pare difficile anche non tenere nella giusta considerazione, all’interno del dibattito, la voglia di lavorare, la capacità, il patrimonio di esperienza, la familiarità con persone e argomenti che, al momento di lasciare la redazione, il giornalista pensionato sente di non voler sprecare. Un sentimento umano e comprensibile.
Altrettanto comprensibile è però quello di chi, affacciandosi al giornalismo – massime nei momenti pessimi e privi di sbocchi che viviamo da alcuni anni – possa trovare “molesta” la presenza di colleghi pensionati che gli sembrano (e spesso sono, con ogni mezzo) attaccati al posto e alla scrivania come licheni, inamovibili, tenaci nel mantenerlo anche grazie alla ricchezza di rapporti e di relazioni maturati negli anni e che un giovane per ovvi motivi non può avere. E grazie, diciamo pure questo, a un’affidabilità e a una duttilità che piace molto ai “capi”, i quali ne approfittano volentieri.
Queste le radici dello scontro. Uno scontro che la congiuntura rende particolarmente aspro, come tutte le guerre tra poveri. Dove i poveri veri sono in effetti i giornalisti in età da lavoro (perché alla fine oggi ad aver bisogno di lavorare non sono oggi solo i giovani, ma anche quelli di mezz’età, i disoccupati, i precari, i freelance, etc). E dove i pensionati sono una categoria troppo spesso percepita dagli altri come “a fine corsa”, cosa oggettivamente stupida e spiacevole.
Una soluzione perfetta ovviamente non esiste. E credo che l’unica praticabile sia quella dettata dalla drammatica contingenza. Una contingenza che si chiama esubero di tutto, tranne che di soldi e di posti. Troppi giornalisti in circolazione, di ogni età e di ogni tipo, al cospetto di un settore che si sta chiudendo a imbuto e in cui, quindi, non solo non c’è spazio, ma ce ne sarà sempre di meno.
Mi pare difficile, in questo quadro, non chiedere ai pensionati – che in fondo una loro ragionevole sicurezza economica ce l’hanno – di fare un passo indietro. Il che non vuol dire andare ai giardinetti, ma cercare di comprendere. Di compiere un gesto di responsabilità, insomma.
Anche se, mi ripeto, resto dell’idea che il cuore del problema rimanga nei vertici e nella convinzione sbagliata che ci siano cose da difendere a tutti i costi, anche contro l’emergenza e l’evidenza. Soprattutto se si chiamano poltrone.
Dimenticavo: in un quarto di secolo di carriera, io un giornalista che sia andato in pensione da freelance, cioè da libero professionista, non l’ho ancora conosciuto. Vorrà dire qualcosa?