Ricorre oggi l’anniversario della morte di ND, passato in un terzo di secolo dal ristretto novero dei perdenti più sconosciuti a quello degli oggetti del culto giovanile e del merchandising. E’ però anche grazie all’effetto di questa lunga scia che giorni fa l’ho incontrato, all’imbrunire, davanti a una vetrina.
Soundtrack: “Things behind the sun“, Nick Drake.
Peso, alcuni chili. Dimensioni, 45×60. Costo, spropositato. Bellezza: enorme.
E così, dopo mezz’ora di scarpinata e un viaggio notturno in autostrada, mi sono portato a casa il mito.
Un mito monumentale, tiratura limitata di 500 copie numerate (curioso, come i km che ho fatto tenendomelo nel bagagliaio), che in cento pagine e duecento foto celebra la parabola musicale e terrena di Nick Drake. Non so se mi spiego.
Avevo solo sentito parlare – ormai poco incline ad aggregarmi a quei riti di massa fatti di passioni antiche e di nostalgie anagrafiche che sono i cosiddetti “tributi” – della mostra dedicata tra settembre e ottobre dalla londinese Snap Galleries (qui) alle celebri sequenze fotografiche scattate da Keith Morris tra il 1969 e il 1971 per le copertine dei tre album del cantautore. Sequenze da cui erano state tratte foto poi divenute famose, ma di cui una ben più ampia parte era rimasta inedita. Nulla di realmente intimo (come può esserlo una sessione di shooting?), ma certamente di vero.
Ma era il tardo pomeriggio di una giornata autunnale, l’aria cominciava a farsi frizzante e il centro storico di Alba stava velandosi di chiaroscuro, tra la luce delle insegne e la penombra dei vicoli.
Andavo a passo spedito ad un appuntamento con Guido Harari, critico e fotografo rock degli anni d’oro, per visitare Wall of sound, la sua galleria (qui). Insomma mi trovavo in quello stato d’animo in cui la mente insegue l’idea “…della musica che ti sceglie e che, quando sei lì, solo con la tua cuffia, vedi ponti immensi e panoramici, hai in testa cori angelici…” (cit. qui). Nel mio inconscio gemeva da qualche parte la Fender di Pete Townshend, anche se poi il mio amore sono sempre state le Gibson (versione Les Paul custom). Immaginavo dunque lo sguardo acquoso di Keith Richards in b/n, con qualche milione di rughe di meno e la sigaretta penzoloni dalla bocca. O gli occhiali di un Lou Reed immortalato in una delle uniche due o tre espressioni sorridenti della sua carriera.
Invece, appena svoltato l’angolo, ecco lui. In tralice, come se spiasse da dietro il vetro. Lo sguardo accigliato, l’aria distratta, mani in tasca su uno sfondo di inconfondibili bricks londinesi.
Nick Drake mi ha accolto così, come un vellutato cazzotto. E l’escursione in galleria ha preso una piega, anzi un beat diverso. Più conversavo e più la concentrazione si affievoliva. Guardavo davanti ma il pensiero era rivolto al mio fianco, al librone in vetrina, a quell’immagine così esplicita della più classica nickdraketudine.
E mentre la fantasia, pur senza nulla saperne, già sfogliava il volume, affioravano al contempo le parole delle tante pagine compulsate, le grandi visioni critiche, l’esigenza mille volte avvertita di un ripensamento generale sulla figura del musicista da me (si era capito?) così amato. Il bisogno insomma di una revisione drastica, adulta, capace di uscire dalla melensità agiografica e di salire al gradino superiore della conoscenza. A una revisione rivelata. Come ad esempio quella da poco tracciata, finalmente, da Rob Young nell’illuminante capitolo dedicato al musicista inglese all’interno del suo altrettanto illuminante saggio “The elecric eden“.
In definitiva affabulavo mentalmente su tutto questo quando mi sono deciso a interrompere il discorso e a chiedere a Guido che diavolo fosse il tomo.
Così, l’inevitabile è accaduto: pietoso traccheggio con mendacia a me stesso sull’opportunità dell’acquisto, patetico tentativo di opporsi a una decisione già presa, autocompatimento per la natura intrinsecamente senile del gesto che stavo per compiere e, olè, “I saw Nick Drake: photographs by Keith Morris“, ovvero il catalogo della mostra (qui) era mio.
Lo sto sfogliando con lentezza esasperante. Non più di due pagine al giorno. Centellino l’introduzione di Joe Boyd, il produttore di Nick (il rockgossip vuole che sia fuggito in Usa, lasciando Drake, perchè era concupito dalla povera Sandy Denny, ma non mi pare azzardato ipotizzare che in realtà fuggisse da, o anche da, ND). Ogni volta lo ripongo e lo richiudo nella pesante custodia di cartone istoriato. Perfino l’imballo, ho messo da parte.
E oggi che avrebbe 64 anni e che se fosse vivo ci avrebbe forse mostrato di sè tutta un’altra storia e tutta un’altra musica, dedico a lui questo regalo natalizio che ho fatto a me stesso e a tutto il tempo che è passato nel mezzo (…amongst the books and all the records of your lifetime…).