Afflitti da una sorta dipendenza, molti freelance e precari non riescono a distaccarsi dal sindacato-matrigna che, con ogni evidenza, li vuole solo quando “servono”. Reclamano diritti sacrosanti, che però non potranno mai vedere riconosciuti finchè resteranno lì. E non prenderanno le distanze dal giornalistificio che contribuiscono a mantenere.
Se fossi Franco Siddi o Roberto Natale, rispettivamente segretario e presidente dell’Fnsi, denuncerei Massimo Alberizzi e Antonella Vicini per stalking.
Massimo Alberizzi è l’inviato “africano” del Corriere della Sera e il leader di “Senza Bavaglio”, la corrente della Federazione che più di tutte raccoglie le istanze delle categorie neglette dal sedicente “sindacato unico e unitario dei giornalisti italiani”, ovvero i precari e i freelance (o meglio: dei pochi precari e freelance iscritti, visto che nella categoria, ma non solo, la rappresentatività federale è irrisoria). Antonella Vicini è una collega romana, già candidata per SB al congresso di Bergamo, che oggi sulla newsletter del gruppo ha raccontato la storia della nascita di una campagna via internet a favore dei giornalisti che si rifiutano di lavorare gratis o quasi.
La denuncia contro i poveri Alberizzi e Vicini obbedirebbe naturalmente non alla volontà di una persecuzione personale, ma alla logica di “colpirne due per educarne cento”.
Educare chi? I freelance, è ovvio. E a cosa? A “non rompere”, ad esempio. A cessare gli appostamenti. A non disturbare il manovratore, a non pietire una qualche assistenza o un minimo riconoscimento contrattuale, a non reclamare attenzione, ad accettare senza discutere la funzione di servi sciocchi (vorrei scrivere “utili idioti”, ma mi trattengo) attribuitagli quando c’è bisogno di loro per gestire gli intrighi elettorali e congressuali gestiti dai papaveri.
Difficile del resto, a parti invertite, non individuare in una forma di stalking ai danni del sindacato il comportamento masochistico dei freelance di SB e del loro capo.
I quali, esattamente come una fidanzata abbandonata che non si rassegna o un’innamorata che non accetta un amore non corrisposto, invece di andarsene sbattendo la porta restano in Fnsi e, contro ogni annosa evidenza, continuano a nutrire, verso un sindacato che (a parole sì, è chiaro, ma nei fatti proprio no) non li vuole, un’incrollabile fiducia e a riporre in esso un’indefettibile speranza.
E quindi eccoli restare a prendere freddo e pioggia davanti al portone, come mendicanti in attesa degli avanzi del banchetto, a fare interminabili anticamere in attesa che il “dottore” si liberi, a nutrirsi di eterne promesse, di vuoti proclami, del miraggio di impossibili riscosse. Mentre, va da sé, la professione e i già magri redditi gli crollano sotto i piedi.
Insomma, freelance e precari sono i primi a soffrire di una patologica dipendenza affettiva verso il maramaldesco leviatano sindacale.
Tutto questo mi è appunto venuto in mente oggi leggendo il pezzo della Vicini, intitolato “FNSI, un Palazzo miope e lontano dai veri problemi”. “Fuori” dal sindacato, questo il senso dell’articolo, e insomma nel mondo “vero” della professione, qualcosa si sta muovendo tra i non contrattualizzati. Raffaella Cosentino ad esempio è una giornalista che ha scritto un e-book, “Quattro per cinque”, sull’esperienza di chi opera nel sud Italia e tratta ogni giorno argomenti pericolosi per pochi euro a pezzo. Ne è nata una sorta di campagna virtuale, ricalcata sugli slogan dei braccianti di Castel Volturno, per i giornalisti che rifiutano di scrivere gratis o quasi: “Non lavoro per meno di 50 euro” (vedi qui).
Chi aderisce alla campagna, si spiega, chiede il riconoscimento di una tariffa minima di 50 euro per articolo o notizia coperta, massimo 40 giorni per il pagamento, regole chiare per la proposta, l’approvazione, la pubblicazione dei pezzi, la riduzione da 100 a 20 euro della quota di iscrizione annuale all’assostampa e una rappresentanza sindacale per i collaboratori all’interno delle redazioni.
Per la causa, aggiunge la Vicini, ci vorrebbero scioperi, manifestazioni, pagine bianche sui giornali, tanto casino. “E quanto ci vorrà – si chiede – perché lì, nel Palazzo, dove si discute della Storia, si renderanno conto che la Storia è già qui e ora?“.
Difficile, di pancia, darle torto. E riconoscere che, a fronte del nulla attuale, le richieste della Cosentino siano molto, molto ragionevoli. Forse troppo. Perché un bracciante agricolo ha dalla sua solo la forza delle braccia, mentre un giornalista, in teoria, dovrebbe avere dalla sua quella di un minimo livello culturale, una deontologia, una professionalità asseverate dall’iscrizione all’albo e, pertanto, da un titolo professionale.
Ora, mi chiedo: fino a che punto i 4 centesimi a riga o i 2 euro ad articolo che talvolta vengono pagati ai collaboratori sono il frutto del cinismo degli editori e fino a che punto della sovrabbondanza di manodopera? E fino a che punto questa sovrabbondanza è dovuta al fiorire delle vocazioni oppure al fatto che oggi chiunque può diventare giornalista senza avere alcuna capacità né mestiere? Fino a che punto l’esaudimento delle cinque richieste darebbe più reddito e sicurezza a tutti e non invece, ponendo gli editori nell’obbligo di pagare di più e quindi di poter scegliere meglio i collaboratori, produrrebbe una riduzione drastica dei giornalisti in attività, espellendo di fatto dal sistema che è meno bravo degli altri?
Tutte domande la risposta alle quali è, ahimè, implicita, ma che forse andrebbe affrontata da una diversa prospettiva: affrancarsi da un sindacato-matrigna e provare a camminare con le proprie gambe, coordinando un movimento a tenaglia che si muova in parallelo sul piano sindacale e quello ordinistico. E abbia il coraggio di incidere il bubbone più purulento e innominabile: quello di una categoria satura (anche) di mezze figure, che con la loro ingombrante, disperata presenza soffocano se stesse e i colleghi, in una guerra tra poveri che porterà solo alla fine della professione.