C’era una volta la rivalità tra il critico e il cronista. C’era la stroncatura, divenuta quasi un genere letterario. Oggi ci sono direttori meno colti, recensioni da 700 battute e articolesse da 16mila. Sospese tra equivoci e minacce di querela.
Dio salvi la recensione, quel bell’articolo di approfondimento in cui un giornalista competente critica, sviscera, interpreta e spiega un libro, un disco, una mostra. E salvi anche chi la scrive, passato nell’arco di pochi anni da figura temuta e rispettata a professionista di serie B, relegato ai margini delle riunioni e nei sottoscala delle redazioni (o direttamente a casa).
E’ un po’ questo il succo dell’affollatissimo convegno (merito dell’argomento o dei punti messi in palio un sabato mattina dall’Ordine per i crediti della formazione giornalistica?) organizzato dall’OdG toscano, l’Assostampa e dal Gruppo stampa autonomo di Siena nel salone dei concerti dell’Accademia Chigiana, una delle più prestigiose istituzioni di una città che, oggi, ha bisogno di tutto. Compreso credere che la cultura serva a ripianare i buchi di bilancio.
Considerazioni sociopolitiche e economiche a parte, l’incontro è stato interessante e vivace. Tanto da suscitare, alla fine, un dibattito acceso quanto raramente se ne vedono in occasioni del genere.
Il punto – affidato alla facondia di Angelo Foletto, critico musicale di Repubblica, Annalena Benini del Foglio, Valeria Ronzani del Corriere Fiorentino e Giorgio Zanchini di Rai 3 – era il seguente: quali sono l’oggi e il domani del giornalismo culturale e, in particolare, della critica?
Quanto bastava sia a sollevare le, comprensibili visti i tempi, geremiadi dei diretti interessati, sia a rinfocolare le vecchie ruggini che, quando i treni arrivavano in orario, corrodevano il rapporto tra il critico ufficiale della testata, dominus indiscusso e spesso sussiegoso della materia a lui affidata (musica, dischi, libri, arte che fossero) e il cronista incaricato di seguire “eventi” inerenti a quegli argomenti. Producendo il seguente risultato: il critico, forte della propria investitura, vietava al cronista di fare critica (con il retropensiero che egli non capisse nulla della materia), mentre il cronista sgomitava per far capire che, senza entrare nel merito (con il retropensiero di capirne quasi quanto il critico, che comunque era un trombone scaldaseggiola), per lui era impossibile spiegare al lettore lo spessore artistico dell’accadimento.
Insomma, l’audience si è scaldata abbastanza quando Foletto si è lamentato di doversi limitare, da parte sua, a recensioni di 700 battute mentre la Benini raccontava con letizia e dovizia dell’impegno profuso a vergare articolesse da 16mila battute per “raccontare” un libro o un personaggio.
“Autoreferenziali” è stato l’aggettivo più carino venuto da una platea costituita in maggioranza dagli agguerriti colleghi della cronaca. “Non avete capito“, la risposta tra il seccato e lo sbalordito dei conferenzianti.
Mondi che non si parlano, forse perchè divisi – a mio parere – da due equivoci di fondo.
Il primo è che il giornalismo è sintesi, la critica è approfondimento. Il solco tra le due specialità, pur tanto affini da essere praticate dalla stessa figura professionale, cioè il giornalista, è determinato dal tempo. Dal tempo a disposizione del lettore per leggere. Lo stile di vita di oggi da un lato e il bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti dall’altro ha quasi azzerato quel tempo. La lettura si consuma in un attimo. Non è un caso che l’informazione, anche critica, tra le nuove generazioni, passi quasi esclusivamente dai social network. Non c’è tempo di leggere le recensioni (vedi postilla in fondo al pezzo, però), ci si fida del passaparola degli amici. In questa prospettiva, la recensione è diventato un genere inutile.
Ma tutto ciò è proprio – e qui sta il secondo equivoco – vero? O è solo l’impressione prodotta dall‘abbaglio preso da chi, con colpevole miopia, continua a vedere l’informazione come quella cosa “veloce” e generica rappresentata solo da internet, radio, tv e (una volta) quotidiani? La mia impressione, perfino qualcosa di più, è che invece in editoria lo spazio per la recensione, l’approfondimento, l’informazione culturale e critica esista eccome. Abbia una nicchia ampia, variegata, tutta sua e commercialmente per niente disprezzabile. Si chiama stampa specializzata. O di settore. Quella non generalista, che si rivolge agli appassionati veri, gente che è competente, vuole sapere, raffrontare le opinioni. Che nella lettura o nella musica riversa la sua passione. Ecco, questo è il rifugio antiatomico (cartaceo o on line che sia) del genus recensione in senso tradizionale.
Del resto, basta guardarsi intorno: all’estero la stampa specializzata sopravvive. Anche perchè è fatta bene, spesso benissimo, con una professionalità (e dunque un seguito fedele) e una relativa indipendenza dagli introiti pubblicitari da noi sconosciute (se il National Geographic Magazine vende tante copie e abbonamenti che potrebbe tranquillamente sopravvivere senza advertising, un motivo ci sarà).
Merita però attenzione anche una giusta considerazione fatta da Foletto e rimasta, purtroppo, inascoltata dalla maggior parte dei presenti. Una considerazione di natura cultural-professionale. “Nel giornalismo – ha detto – negli ultimi trent’anni c’è stato un cambiamento radicale: è cambiata la formazione culturale dei direttori dei giornali. Quelli di prima avevano una formazione umanistica e, quindi, un’inclinazione naturale a dare spazio e rilievo alla cultura, alla cosiddetta terza pagina, che per la testata rappresentavano senza dubbio un costo economico, ma un guadagno di autorevolezza e prestigio. Quelli di oggi hanno una formazione politico-economica. Hanno priorità diverse, vedute diverse, sensibilità diverse. E in tutto questo, critica e cultura affogano“.
Condivido al cento per cento. Si tratta solo di prendere atto della realtà.
Postilla.
C’è anche un’altra riflessione da fare, sempre di natura socioeconomica: la recensione ha un senso e una funzione quando fa da contrappeso all’investimento di qualcosa. Tempo o denaro, direi. In quantità sufficienti da spingerci a porsi la domanda se il gioco valga la candela. Ma tutto ciò si vanifica se il prodotto è così cheap che, spendere il tempo o la somma richiesti, è alla fine irrilevante. Questione di proporzioni: se comprare il libro x o il disco y comporta sacrificare una percentuale importante del mio budget, ci penso due volte, leggo le critiche, mi informo. Se tutti comprano un quotidiano a 1,20 euro per sfogliarlo in treno ma ci pensano su a comprare un libro che ne costa 40, un motivo insomma ci sarà. Si chiama consumo. Potrà apparire paradossale ma il consumismo ammazza la recensione, perchè la rende inutile.