Non so se compiacermi del (facile) vaticinio che avevo azzardato su questo blog tempo fa: tra un po’ – con la crisi della professione e la conseguente fuga dal giornalismo attivo – arriveremo al paradosso di avere più pr che giornalisti. Come negli hotel a 5 stelle lusso insomma, dove la regola è di almeno un dipendente per ogni cliente. Non lo dico solo io. Lo conferma, almeno per la Gran Bretagna, anche Shafik Meghji su PRWeek, una delle maggiori testate online nel campo delle pubbliche relazioni e lo riporta qui il sito del Ldsi (Libertà di Stampa e Diritto all’Informazione).
Per un giornalista l’espressione è forte: passare da “oggettivi” a “soggettivi”. Scavalcare la staccionata, piazzarsi dall’altra parte della barricata, insomma. Ovvero abbandonare la professione e buttarsi nel mare magnum delle pubbliche relazioni. Una tentazione che è spesso, al tempo stesso, una necessità e un’opportunità, una speranza e un salto nel buio.
Le premesse sono note e chi è del mestiere le verifica ogni giorno: il lavoro giornalistico è in crisi profonda. Inflazionato, precario, mal pagato, senza spazi nè prospettive. E così molti, perduto il posto o non riuscendo a trovarlo, si riciclano. Mettono a frutto l’esperienza, il talento, l’acume, la proverbiale “velocità” del giornalista per mettersi a servizio di un committente e portare acqua ai suoi interessi anzichè a quelli della ormai abusatissima e retoricissima “verità”.
Il fenomeno è imponente perchè coinvolge categorie fino a ieri impensabili e capovolge luoghi comuni consolidati, con fior di professionisti che volutamente mollano la scrivania dei giornali: altro che giovani con difficoltà a sbarcare il lunario e il solito manipolo di specialisti del settore.
Ma mi chiedo: già adesso il numero dei colleghi che si lanciano nel mercato degli uffici stampa è esorbitante, non c’è il rischio che con questo andazzo i pr diventino più dei giornalisti? E che l’offerta superi la domanda?
Il quesito non è peregrino, anche perchè, oltre alla figura del giornalista, da noi sta scomparendo un altro dei pilastri, anzi “il” pilastro sui quali si basa, giocoforza, l’esistenza della professione: i giornali. L’orizzonte editoriale è asfittico, le testate affondano, altre sopravvivono più virtualmente che concretamente, le redazioni di svuotano e, al loro interno, il confine tra informazione e pubblicità si fa sempre più sottile, impalpabile, impercettibile.
Non si può quindi certo dar torto a chi pensa con interesse a rilanciarsi in una professione parallela, che sembra offrire prospettive di reddito e di stabilità ben superiori a quella originaria.
C’è chi definisce tutto questo la morte del giornalismo.
Voi che ne pensate?