In una doppia mostra a Palazzo Strozzi per il 500° di Vespucci, la fascinazione onirica e l’osmosi, pittorica e non, tra il Nuovo Mondo e la città più amata d’America.
Mentre da una parte c’erano la conquista del West e la corsa all’oro, epopee che tutti conoscono, dall’altra, contemporaneamente ma nella direzione opposta, era in corso un’altra fuga in avanti. Forse più silenziosa e discreta della prima. E tuttavia non meno febbrile. Una fuga intellettuale, colma però di altrettanto stupefacenti scoperte: l’esplorazione americana di Firenze, culla del Rinascimento e madre del Vecchio Mondo, col suo fardello di suggestioni, di stratificazioni incomprensibili. E del solito incoercibile fascino.
Anche questa fu un’esplorazione, a suo modo, pionieristica, che pose i forestieri venuti da oltreoceano di fronte allo stupore di un “paesaggio civilizzato” a loro fatalmente sconosciuto, di un intreccio secolare tra città e campagna e le rispettive società, nonché di stili di vita multipli, frutto della combinazione del ribollire popolare, del declino aristocratico e di una nuova borghesia trasversale, interclassista e cosmopolita.
L’effetto che la Firenze a cavallo tra la metà dell’800 e la prima Guerra Mondiale produsse sugli americani che a ondate vennero a visitarla fu insomma un feedback di lunghissima gittata, capace di impressionare per sempre l’immaginario collettivo statunitense e di far sentire ancora oggi la sua pur lontana eco.
A dimostrare – e al tempo stesso ad interpretare – questo variegato imprinting vengono ora due mostre da poco inaugurate in città (chiudono ambedue il 15 luglio) e organizzate dalla Fondazione Palazzo Strozzi in occasione del cinquecentenario della morte di Amerigo Vespucci, l’eponimo.
La prima, “Americani a Firenze. Sargent e gli impressionisti del Nuovo Mondo”, ripercorre in sei sezioni la storia della reciproca influenza tra il sanguigno mondo mediterraneo non solo dipinto, ma incarnato anche fisicamente dai Macchiaioli e quello, più accademico ma intriso di vibranti aspettative, dell’ala impressionista degli artisti statunitensi trasferitisi sulle colline fiorentine, come John Sargent e Frank Duveneck. In uno scambio di umori e relazioni che vide coinvolti tanto maestri del pennello (Corcos, Signorini, Boldini) quanto una più vasta cerchia di letterati, romanzieri, antiquari: da Bernard Berenson a Henry James e Edith Wharton. Tutti capaci di raffigurare, con le parole e con le immagini, le istantanee di una Toscana ancora preindustriale. Tocca anche alle donne, in quest’epoca di trapasso, essere simbolicamente protagoniste attive e passive della mostra: ora fanciulle in virginale abito bianco, ora spose nell’intimità domestica, ora matronali nei ritratti posati, trovano in pittrici come Cecilia Beaux e Lilla Cabot Perry le esponenti di un movimento di emancipazione artistica all’epoca sconosciuto nel nostro paese.
E’ dunque sottile, ma non invisibile, il filo che lega questa alla seconda mostra strozziana, “American dreamers. Realtà e immaginazione nell’arte contemporanea americana”. Un filo soavemente provocatorio e sinuoso, destinato a collegare l’idea del sogno toscano cullato dagli ancora acerbi americans a cavallo tra ‘800 e ‘900 con il “sogno” per eccellenza dei nostri tempi. Un sogno, l’american dream, nel frattempo divenuto però consapevole ed evolutosi quanto basta a poter conoscere stagioni diverse. Il cui spartiacque è stato virtualmente individuato dai curatori in quell’11 settembre 2001 che rappresenta, al tempo stesso, la perdita dell’innocenza e la metabolizzazione dell’orgoglio. Undici gli artisti contemporanei chiamati a esporre alla Strozzina la loro personale raffigurazione della fantasia, sia attraverso una rivisitazione della realtà che attraverso una propria espressione onirica. Il risultato è un viaggio ora surreale e ora politico tra le pieghe parallele di un mondo sempre più globale. E pertanto, tendenzialmente e proprio per questo, a stelle e strisce.
Info: 055 2645155 e www.palazzostrozzi.org.