di URANO CUPISTI
Superare gli ostacoli della burocrazia per arrivare al Polo passando dall’ex URSS fu quasi più difficile che rompere la banchisa a bordo di un rompighiaggio-squalo a propulsione nucleare…

 

Chiariamolo subito: qui si parlerà di Polo Nord e non di Capo Nord, quello che tanti turisti visitano per poi raccontare di “essere stati al polo“, senza nemmeno sapere che quella non è neppure la punta estrema d’Europa, ma una furba, sebbene affascinante, invenzione turistica. La punta davvero più estrema si chiama infatti Capo NosdKinn e si trova sull’omonima penisola norvegese.

Comunque qui si parla di Polo Nord, quello vero.

Arrivarci è tutta un’altra avventura e io l’ho vissuta pure qualche decennio fa, quando per motivi logistici e geopolitici era tutto ancora più complicato.

Un viaggio che sognavo fin da ragazzo e che preparai meticolosamente.

Dovevo prima raggiungere Arcangelo, città di riferimento della regione russa di Oblast, quella sul delta della Dvina, il fiume che sfocia nel Mar Bianco.

Perché proprio Arcangelo e non Murmansk, sulla penisola di Kola? Perchè un giorno lontano ero rimasto colpito da un documentario sulla tragedia del dirigibile Italia, in cui si diceva che a intercettare il messaggio di SOS inviato dai superstiti dispersi sul pack era un giovane di quella città, coi capelli biondi e gli occhi celesti come un husky.

Da Arcangelo sapevo che poi potevo raggiungere l’isola più importante dell’arcipelago di Novaja Zemlja e da lì le estreme Terre di Francesco Giuseppe, per imbarcarmi infine su di un rompighiaccio russo a propulsione nucleare e conquistare, finalmente, il Polo.

Ma passare dalla teoria alla pratica non fu facile. Anzi, Tutt’altro.

Superato l’ostacolo (non irrilevante!) del budget e scelto il periodo (luglio, per evitare le nebbie) furono i visti da ottenere presso l’Ambasciata di Russia a Roma (da poco non più Unione Sovietica) e i permessi per uscire dagli aeroporti e visitare le città, Arcangelo all’andata e Murmansk al ritorno, che occuparono gran parte del mio tempo.

All’ufficio immigrazione dell’Ambasciata romana subii veri e propri interrogatori: “Perché vuole visitare Arcangelo? Perché scendere a Novaija Zemlja? Lì non c’è niente da visitare, solo una città legata al suo porto di traffici marittimi e militari e un’isola dove l’unica attrattiva è la grande raffineria di petrolio. Quindi, perchè?”.

Era difficile spiegare al solerte funzionario ciò che anima il viaggiatore e ciò che egli riesce a vedere oltre i casamenti di regime e le luci sempre accese della raffineria. Difficile spiegare la voglia di vento siberiano che soffia forte, vigoroso anche d’estate, e non intimorisce affatto chi è curioso, rendendo le architetture anche più tristi parte incantevole di una città e motivo per una esperienza indimenticabile. Ancora più difficile spiegare cosa significhi arrivare nella la città dedicata all’Arcangelo Gabriele, un tempo ricca delle chiese ortodosse che poi avrei trovato distrutte durante il governo di Stalin. E poi c’era l’argomento della gente dalla pelle bianca come il latte, dai capelli biondi e gli occhi celesti come gli husky, ma durante gli “interrogatori” furono motivazioni che preferii tenere per me.

Insomma nacquero problemi di ogni tipo, risolti solo con infinita pazienza, fino all’inevitabile compromesso: ok su tutto ma impossibile mettere piede su Novaja Zemija, isole off limits per tutti: prendere o lasciare.

Presi.

L’inquisitore parve sollevato e mi disse: ”Lei è fortunato, le diamo la possibilità di arrivare in aree top-secret, inaccessibili fino a qualche tempo fa”. Grazie ex compagno, pensai tra me e me.

Arrivare nelle terre di Francesco Giuseppe, già aperte al turismo “artico” e organizzate con servizi vari ed essenziali, fu un po’ più facile. Lì, di media, la temperatura estiva staziona intorno allo zero (è l’effetto limite della corrente del Golfo) e permette al ghiaccio di liberare lembi di terra coperti da muschi e licheni.

Arrivai all’aeroporto ben equipaggiato proveniente da Arcangelo, via Murmansk. Durante il volo osservai da molto lontano la punta di Novaja Zemlija e dissi dentro di me: “Tanto non c’è niente da vedere. Aveva ragione il  funzionario dell’ambasciata”. Magra consolazione.

Potrà apparire sorprendente, ma non ci fu alcun disbrigo di formalità aeroportuali. Del resto eravamo già tutti nella lista dei super sorvegliati e francamente, poi, da lì dove potevi fuggire? Ci avevano ritirato pure i passaporti. Fummo portati – eravamo in trentuno tra cinesi, tedeschi, qualche svizzero, uno statunitense e il sottoscritto, solo italiano – nell’unico insediamento esistente in attesa del trasbordo con gli zodiac sul rompighiaccio alla fonda. Quella fu la prima volta che sentii nominare il termine inglese hotspot. Oggi capisco il perché di quel termine usato dal capo spedizione: punto di primissimo smistamento allestito nell’unico insieme di baracche-container adibite a dormitorio, mensa, sala ricreazione. Insomma il posto in cui la polizia di frontiera ci poteva facilmente controllare fino al momento dell’imbarco.

Dovetti rimandare al viaggio di ritorno tutte le vagheggiate contemplazioni di animali, stazioni meteorologiche e vita artica fatte prima della partenza. Riuscii a stento ad uscire all’aperto e passeggiare sulla neve tanto lasciare le orme dei miei stivali, come dire: sono stato anche qui! Poi venne subito un ex tovarish, ancora col colbacco con la stella rossa, a chiedermi di rientrare.

La nave era un mostro. Da quando era stata convertita per i tour, le avevano pitturato a prua la bocca di un pescecane. Passarci con gli zodiac fu angosciante. Il messaggio era chiaro: “Dai, mordi il pack e tutto quanto trovi davanti a te”.

La mia cabina, la meno costosa, una standard twin con due cuccette, era grande una quindicina di mq, aveva l’oblò sull’esterno e si trovava al ponte 3 (il capo spedizione ci disse che eravamo stati fortunati ad essere stati messi lì). La condividevo con un cinese che parlava un chinenglish e un po’ di romanesco alla Totti. Scoprii che aveva lavorato in una pizzeria a Roma, verso Trastevere, per sei mesi e che si era qui, nella spedizione artica, per “ritrovare se stesso”. Scene surreali: un pizzaiolo cino-romano in mezzo all’artico. Lo ribattezzai Mao e lo chiamai così per tutto il viaggio, lui ogni volta rideva alla maniera cinese.

Fantastico…

 

(continua)