Cicogne, porcospini, rondini, tartarughe: tutti in pentola. Roba da far “accapponare i capelli” ad animalisti, vegetariani ed anche semplici persone di buon senso. Ma anche da far leccare i baffi ai gourmet poco schizzinosi. In un libro tra lo storico e il gastronomico, 51 piatti altamente “sconvenienti”.

Le meno offensive per la sensibilità corrente sono quelle a base di uccellini, anguilla e lepre. Quelle più orripilanti, oltre all’immancabile gatto, prevedono come ingrediente carni di orso, porcospino, tartaruga, rondine, cigno, istrice, scoiattolo, tasso e ghiro.
Sono le “ricette proibite” messe in fila, illustrate, descritte e or ora pubblicate per la casa editrice fiorentina Sarnus dal mugellano Tebaldo Lorini. Un tipo raffinato, in verità, cultore di folklore, gastronomia ed arte. Che ha avuto però il coraggio, in tempi di ipersensibilità come questa, di andare a rispolverare nella tradizione italiana quelli che fino all’altroieri erano semplicemente dei classici della cucina povera o di quella sua variante che è la cucina legata alla caccia.
Il tutto senza vergognarsi ed anzi argomentando non male per dimostrare quanto, pur nel rispetto delle idee di tutti, poca differenza intercorra in termini sostanziali tra uno spezzatino di vitello ed uno di tasso. E quanto, anche nell’immediato passato, poco si andasse per il sottile nel distinguere gli animali commestibili da quelli non commestibili.
Nel suo volumetto (75 pagine, 10 euro) Lorini dimostra infatti come, aldilà degli usi alimentari più esotici (in certi paesi dell’Africa è normale macellare ed esporre il gorilla, per non parlare dei serpenti cinesi, dei cani coreani, dei lama andini e dei canguri australiani) e di certi divieti frutto più di norme legali che morali, anche in Europa la linea di demarcazione tra le due categorie sia assai labile ed ondivaga a seconda dei luoghi e delle generazioni. Senza andare a scomodare i topi di fogna mangiati durante l’assedio prussiano di Parigi nel 1870, l’autore racconta come nello stesso anno e nella stessa città un ristorante à la page come Voisin, in rue Faubourg Saint Honoré, non ebbe ad esempio esitazioni a proporre alla clientela, come piatto natalizio, la testa d’asino. “Senza tralasciare – aggiunge – che la scarsità di cibo ha in passato aiutato sempre, involontariamente, la gastronomia: si studiavano infatti nuove ricette per rendere appetitoso ciò che non lo era affatto”.
Infranto il muro del bisogno e costruito quello del pregiudizio culturale, ecco che la società contemporanea tende quindi progressivamente a cancellare dal proprio ricettario quotidiano quei piatti a base di carni la cui provenienza urta la sensibilità comune. Senza tuttavia riuscire a cancellarne la memoria né dal lessico, nè dagli adagi popolari: quando si dice “non dire gatto se non l’hai nel sacco” (Trapattoni docet) non si sa – ammonisce Lorini – che il riferimento è al modo in cui si usava uccidere i gatti per mangiarli, cioè mettendoli in una balla e sbattendoli contro il muro.
Della serie: non è coprendosi gli occhi o turandosi le orecchie che si può cambiare il gusto di una pietanza.
Esempi? Eccone alcuni, presi direttamente dall’indice del libro: porcospino al sugo, arrosto morto di volpacchiotti, ragù di tartaruga, bistecca d’orso alla brace, rondinotti al tegame, cigno con le arance, ragù di corvi, cosci di gatto al latte, spezzatino d’istrice, ghiro al miele, scoiattolo in umido, spezzatino di tasso.
Buon appetito (o buona arrabbiatura).

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