di ROBERTO GIULIANI
Il 1997 fu uno spartiacque per il vino italiano, sulla spinta mediatica del decennio precedente, i vini “ribelli” che finivano tutti in “-aia”e in “-ello” etc. . Il Litra di cui parliamo nasce in quel contesto. A distanza di oltre vent’anni regge bene, ma non emoziona: molti muscoli, poca anima.
Forse non tutti se ne ricordano, ma il 1997 è stato in qualche modo uno spartiacque nel mondo del vino italiano, soprattutto dal punto di vista commerciale. Fu declamata annata del secolo, partirono gli acquisti “en primeur” (ovvero di annate ancora non in vendita, da prenotare a scatola chiusa), fu il periodo del trionfo del “nuovo vino italiano”, grazie alla spinta mediatica ottenuta nel decennio precedente con i vini ribelli, i cosiddetti “supertuscan”, ovvero quei vini prodotti al di fuori di doc e docg, come “semplici” IGT o Vini da Tavola, quelli i cui nomi finivano per “-aia”, “-ello” e via discorrendo e che trascinarono ben presto dal Piemonte alla Sicilia in un percorso alternativo alla ricerca di premi e successi.
Uno degli enologi che aprì la strada al rinnovamento fu certamente Giacomo Tachis, un rinnovamento che coinvolse prima di tutto il comparto enologico e che fece presto proseliti in varie parti d’Italia, non sempre con gli stessi risultati qualitativi.
Oggi, quell’immagine del super vino si è un po’ sgonfiata, progressivamente si è passati dalle concentrazioni esasperate e l’abuso di legno piccolo alla ricerca di un sempre minore e garbato intervento enologico, ma anche a una maggiore comprensione nei confronti delle piante: continuare a forzare sulle basse rese, su produzioni sempre più irrisorie per ceppo, significava anche produrre squilibri non considerati, soprattutto man mano che il clima andava trasformandosi (vedi una gradazione alcolica sempre più alta e un’acidità sempre meno adeguata, correzioni e aggiustamenti che non consentono al vino di trovare i propri equilibri naturali); inoltre le mode passano, si sa, fare vini potenti significa che sono prodotti più da guida che da pasto, la richiesta si è poco a poco spostata su vini meno manipolati e più digeribili, termine ancora troppo poco considerato per il vino, mentre sul cibo è essenziale.
La crescita esponenziale nel terzo millennio di vini biologici e biodinamici, la dice lunga sulle nuove strade che questa bevanda sta prendendo, soprattutto oggi si vogliono vini che non stancano, più “veri”, eccitanti, magari anche leggeri ma che abbiano qualcosa da raccontare del luogo dove nascono, la prova del nove è sempre a tavola: se la bottiglia viene velocemente finita, vuol dire che ha raggiunto il suo obiettivo principale.
E il Litra 1997 dove si colloca? Beh, il periodo era quello che abbiamo descritto, quindi non può esimersi da avere certe caratteristiche, però ha dalla sua una tenuta e una sorprendente vitalità che testimoniano comunque una qualità non comune.
Vado in cantina e prelevo una delle due bottiglie che conservo dall’anno 2000.
Nonostante sia stata coricata per quasi vent’anni, il tappo di 5 cm. è in perfette condizioni, solo circa 1 centimetro è stato raggiunto dal liquido. Odore perfetto, di vino maturo e null’altro.
Andiamo a vedere il contenuto: il colore è un granato ancora compattissimo, senza cedimenti; la tecnica enologica è indubbiamente perfetta, trovare un vino chiuso vent’anni in bottiglia senza alcuna riduzione evidente è fenomeno davvero raro. Accostato al naso non si fa fatica a riconoscere i tratti del cabernet sauvignon, non solo, ma gli anni sembra portarseli molto bene; c’è ancora un frutto vivo e carnoso che avvolge i sensi odorosi, prugna, ribes nero neanche tanto in confettura (ne capitano di ben più maturi con meno anni di età), sensazioni di muschio, leggero catrame, ematite, liquirizia, scatola di sigari, cacao amaro, cenni di cuoio.
All’assaggio rivela la sua grassezza, la ricerca di una concentrazione che, però, trova bilanciamento in un’acidità decisa che richiama il cedro, un elemento che costituisce la giusta impalcatura per dare slancio al sorso; acidità e cremosità che convivono senza dare l’impressione di essere arrivati al capolinea.
Questo è un eccellente risultato, non c’è che dire, anche se, onestamente, l’impressione è di un vino un po’ “artificiale”, troppo voluto a tavolino, ineccepibile sul piano tecnico ma che non mi emoziona né mi trasporta nell’amata Sicilia. Lo stesso approccio che ho sempre ritrovato in vini come il sardo Turriga, sempre opera di Tachis. Erano altri tempi, altre visioni, probabilmente necessarie per smuovere quella polvere che, volenti o nolenti, si era depositata sull’immagine del vino italiano. Del resto lo stesso Tachis in epoca più recente aveva cambiato rotta in modo evidente, tanto da promuovere il vino “sano”, meno lavorato e proveniente da vigne trattate il meno possibile.
Come noi (che ne siamo i creatori), il vino ha un corpo e un’anima; quegli anni furono dedicati al corpo…
Pubblicato in contemporanea su