di LUCIANO PIGNATARO
La riesumazione dalla cantina di una Vigna del Pino 2003 di R. Moccia, passata in legno di castagno, offre il destro per commentare un gran vino e resettare i pensieri dopo vent’anni di scrittura vinicola del nostro cronista.
Celebro vent’anni esatti della mia scrittura sul vino al Mattino e alcune cose sono molto utili per resettare e riflettere su quello che è successo. Quando iniziai a parlare delle bottiglie campane sul quotidiano, un dato era assolutamente certo e condiviso: i bianchi vanno consumati entro l’anno, la Falanghina è un vinello da bere senza perdere molto tempo.
Lentamente, molto lentamente, negli anni ’90 e soprattutto nel decennio successivo si è affermata invece la consapevolezza della longevità dei bianchi campani, regalata soprattutto dall’acidità sempre elevata con cui partono. E molti produttori, ormai sono più di una dozzina, iniziano a presentarli uno, due, anche più anni dopo la vendemmia con un successo crescente.
Fiano, Greco. Ma anche Coda di Volpe e Pallagrello possono regalare grandi emozioni quando sono ben conservati.
La Falanghina è stata l’ultima ad entrare in questo club, penalizzata anzitutto dal suo successo e dall’essere il vitigno a bacca bianca più coltivato non solo in Campania, ma anche in Molise, in Basilicata e in Daunia. La grande richiesta di vino bianco sulle coste troppo antropizzate non ha mai spinto nessuno a conservarla in cantina.
Poi, quasi per caso, Libero Rillo fa uscire la 2001 dimenticata in cantina diversi anni ed è un successo. Da quel momento si moltiplicano le occasioni di degustazione con sorprese sempre più grandi. L’ultima alla Cantina Astroni all’inizio dell’anno quando annate vecchie di dieci anni si sono presentate in forma smagliante.
I profeti della Falanghina nei Campi Flegrei, una sorta di frullato vulcanico di acqua, terra e fuoco a nord di Napoli con quasi cento crateri, sono Di Meo, Contrada Salandra e Raffaele Moccia.
Durante una recente visita in cantina di questa famiglia contadina sopravvissuta all’urbanizzazione selvaggia di Agnano abbiamo provato il Vigna del Pino 2003, la prima edizione, passata in legno di castagno, pensata con l’enologo dell’epoca, Maurizio De Simone. Una bottiglia riprovata un paio di mesi dopo al Don Alfonso. Si tratta di un bianco assolutamente non progettato per durare a lungo, bensì, nell’idea di De Simone, per riprodurre quello che doveva essere il gusto contadino prima dell’arrivo della vetroresina e dell’acciaio nelle cantine.
Ormai ne sono sopravvissute una decina di bottiglie e quelle che abbiamo avuto la fortuna di aprire sono davvero buone. Anzitutto il naso è molto ricco, cedro candito, miele di castagno, note fumè e tostate, funghi. In bocca l’acidità regge benissimo la beva sapida e minerale, con ritorno di miele di note di conserva agrumate. La chiusura è precisa, amarognola persino, fresca e appagante.
Un grande vino che oggi è una sorta di navicella spaziale lanciata nel tempo in attesa, speriamo di una colonizzazione massiccia di etichette impegnate nella sfida degli anni
Via Vicinale abbandonata agli Astroni 3, Napoli
www.agnanum.it, info@agnanum.it
Tel e Fax 081 2303507
Ettari: 3 e mezzo, vitigni Falanghina e Piedirosso
Enologo : Maurizio De Simone.
Bottiglie prodotte: 13.000.
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