di ROBERTO GIULIANI
Abbiamo ristappato dopo anni il Barolo Vigneto Monvigliero ’99 Burlotto, inconfondibile cru di Verduno, il paesino langarolo di 500 anime che col Pelaverga s’è pure guadagnato la sua doc.
Ne è passato di vino nei calici da quando ho conosciuto Marina Burlotto, suo marito Giuseppe Alessandria e il figlio Fabio. Questa storica azienda di Verduno, uno degli undici comuni dove si produce Barolo, è stata fra le prime a farmi innamorare di questo straordinario vino di Langa.
Verduno (Vërdun in piemontese) è un piccolo comune in provincia di Cuneo con poco più di 500 abitanti, ovviamente tranquillo e probabilmente spiazzante per un cittadino, ma basta salire al belvedere per rendersi conto di trovarsi di fronte un panorama fra i più affascinanti di tutte le Langhe.
Qui dimorano alcuni cru (oggi Menzioni Geografiche Aggiuntive) di assoluto rilievo, come Neirane, Massara, Breri, San Lorenzo, Pisapola e soprattutto Monvigliero, 25 ettari la cui formazione geologica è caratterizzata dalle Marne di Sant’Agata fossili in forma laminata, a un’altitudine che va dai 220 ai 310 metri, dove il Nebbiolo occupa più del 90%, affiancato da Barbera, Dolcetto e Pelaverga, quest’ultimo vitigno di notevole importanza che si è guadagnato la Doc Verduno Pelaverga.
Il Monvigliero, come tutti i grandi cru, nelle migliori annate esprime una straordinaria eleganza, la 1999 è sicuramente fra queste e la versione di Burlotto è da sempre la mia preferita. Riassaggiarla a distanza di 22 anni dalla vendemmia mi suscita una certa emozione, ormai erano almeno 5 anni che non degustavo più questo millesimo.
Ovviamente il colore è un granato-aranciato, ma questo non deve stupire perché il vino nasce già con un granato pronunciato, in ogni caso è limpidissimo e non manca di una rassicurante luminosità.
Doverosamente lo lascio respirare per parecchi minuti, in modo da ripulirsi da qualsiasi riduzione, ed eccolo fiero mostrare un corredo espressivo raffinato, dove emergono con decisione due note che lo caratterizzano in modo inequivocabile: l’oliva e l’arancia. Seguono profumi di prugna, ciliegia sotto spirito, tabacco, cuoio, sottobosco, liquirizia, cenere ed erbe aromatiche essiccate.
All’assaggio colpisce per la freschezza e balsamicità che riesce ancora a esternare, rendendo il sorso piacevolissimo e per nulla stanco, la componente terziaria non rivela cedimenti ossidativi ma esprime una notevole coesione; un tocco di austerità in un contesto squisitamente comunicativo.
E ha ancora tanta strada davanti a sé.
Pubblicato in contemporanea su