di STEFANO TESI
Il pieno lockdown tre enologi si mettono in caccia di antichi vitigni abbandonati. E dopo 50mila km, 150 analisi del Dna, 10 nuove scoperte e 62 microvinificazioni nasce GRASPO, l’associazione per la ricerca, la salvaguardia e la preservazione della biodiversità vinicola.

 

Nel mondo del vino tutti sanno chi è il sulfureo Aldo Lorenzoni, ex direttore di lungo corso del Consorzio del Soave, da qualche anno a riposo.

A riposo per modo dire, però. Perché, conoscendolo, l’espressione “a riposo” gli si attaglia assai poco.

Ero infatti a conoscenza da tempo che più di qualcosa bolliva in pentola. Ma non immaginavo che fosse delle dimensioni che ho scoperto all’ultimo Vinitaly, quando mi è stato messo in mano il librone (grande formato, a colori, oltre 300 pagine) di cui vedete la copertina.

E se già il titolo è tutto un programma, ancora di più lo è il nome dell’editore. Ossia G.R.A.S.P.O., acronimo del chilometrico “Gruppo di Ricerca Ampelografica per la Salvaguardia e la Preservazione dell’Originalità e della biOdiversità (sic!) Vinicola”.

E’ l’associazione del Terzo Settore, quindi senza finalità di lucro e con attività di riconosciuto interesse generale, formalizzata lo scorso marzo, che riunisce il gruppo di lavoro nato nel 2020 dall’idea di tre enologi (Aldo Lorenzoni, Luigino Bertolazzi e Giuseppe Carcerieri, ndr)”, spiega lui. “I quali, convinti dell’importanza che anche nel settore vitivinicolo la conservazione della biodiversità costituisca una risorsa importante non solo in chiave scientifico-culturale, ma anche in prospettiva commerciale, si sono messi a girare a spese loro l’Italia per trovare antichi vitigni abbandonati. Lo scopo iniziale era individuarli e ripropagarli. Ma ci siamo subito accorti che la loro sopravvivenza era legata al filo doppio a chi, spesso in tale solitudine, quella sopravvivenza l’aveva garantita per generazioni e ancora la garantiva: ovvero tanti viticoltori appassionati e lungimiranti. Ognuno con una sua storia, un proprio merito e una propria visione delle cose, che meritavano di essere raccontati. Li abbiamo nominati “custodi”. E quando si è trattato di raccogliere nel libro i risultati del nostro lungo peregrinare, ci è parso indispensabile inserire in primo piano anche loro”.

Ecco, allora: in estrema sintesi il volume in parola è il racconto, suddiviso per capitoli e dettagliate schede storiche, descrittive e ampelografiche, di quest’avventura durata (finora, perché il viaggio continua) la bellezza di 50mila km al volante dalle Alpi alla Sicilia, 150 incontri coi produttori, 250 prelievi di materiale vegetale, 150 analisi del Dna per stabilire l’identità dei campioni, la scoperta di 10 nuove varietà di uva e 62 microvinificazioni. Alcune delle quali, che quelli di Graspo hanno battezzato “i vitigni del cuore”, assaggiate anche dal sottoscritto alla fiera veronese.

Di certe varietà – sottolinea Bertolazzi – abbiamo individuato una sola pianta. Si tratta quindi di esemplari unici, da tutelare con la massima attenzione. E spesso solo noi, oltre ovviamente al loro custode, sappiamo dove si trovano”.

I casi interessanti sotto ogni punto di vista si sprecano.

A Sprea, in provincia di Verona, a 700 metri di altitudine e completamente abbandonato, è stato trovato un vigneto vecchio di un secolo e mezzo di Liseiret o Gouais Blanc, antichissima uva bianca, forse già coltivata all’epoca di Marco Aurelio, progenitrice di almeno un’ottantina di varietà moderne (compreso lo Chardonnay e il Gamay). “Era tra le più diffuse nella viticoltura medievale dell’Europa Centrale”, scrive nella scheda l’ampelografa del Cnr Anna Schneider, “ma oggi è assai rara”. Anche in Champagne, si viene a sapere, la stanno riscoprendo e studiando.

In Alto Adige, nella zona di Magrè, è stato individuato invece forse l’unico produttore al mondo di Hortroete, alias Roeter Hoerling, vitigno rosso sul quale si sa pochissimo. Si tratta di una vite monumentale (e tale dichiarata dalla Provincia di Bolzano), “a muro”, piantata addirittura nel 1601, di cui però solo il ceppo originale produce uva, mentre le due viti vicine, da esso derivate, non fruttificano affatto. Il suo custode, Robert Cassar, l’ha vinificata l’ultima volta nel 1989, ottenendo un vino che, dicono i pochi fortunati che l’hanno assaggiato dopo oltre trent’anni, è risultato “assolutamente sorprendente”. Ora è toccato a Graspo ripetere l’esperimento e, ovviamente, le aspettative sono notevoli.

Ma se il volume è un’autentica miniera di informazioni, supportate tra l’altro da un non indifferente e dettagliatissimo apparato iconografico (lodevole ad esempio l’idea di riportare per ogni scheda la foto del grappolo a tutta pagina e a dimensioni reali, affiancato da una scala in cm in modo da poter cogliere  le affettive proporzioni), piace anche l’approccio “umile e attento”, come lo definisce Lorenzoni, alla materia.

Conservare la biodiversità – scrive del resto il professor Attilio Scienza nell’introduzione – non significa mantenere le varietà di vite in una collezione, ex situ, dove raccogliere come in un museo i genotipi a rischio di scomparsa ma, per le profonde connessioni tra vitigno antico e cultura del luogo che lo ha selezionato e coltivato fino ad ora, queste varietà devono tornare ad essere protagoniste dello sviluppo agricolo ed economico di quelle popolazioni”.

Insomma, sempre per dirla con Scienza, sì ai vitigni-reliquia, purchè non si limitino a restare una curiosità biologica.

Sul punto, del resto, Graspo non ha dubbi: ci interessano solo vitigni che diano uve vinificabili.

Il libro può essere richiesto scrivendo a luigino@graspo.wine e costa 25 euro, spedizione compresa.

 

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