Infuria in rete il surreale dibattito su chi sia giornalista o cosa sia attività giornalistica. E’ giornalista chi scrive sui muri, o chi “anima” pagine di FB? Di questo passo a ogni grafomane spetterà il “tesserino” (c’è già chi vuole darglielo) e tutti saranno contenti.
Nella smania di promiscuità a tutti i costi, di egualitarismo senza cervello e di intercambiabilità senza capo nè coda di ruoli e funzioni che, come una nebbia, da qualche tempo ci avvolge, si leva una considerazione piuttosto preoccupante. E sempre più diffusa: “scrivo, quindi sono“.
Sono cosa? Ma giornalista, che diamine!
Sillogismo che rispecchia un capovolgimento dei fattori naturali così brutale da rendere obsoleta perfino la dibattutissima questione sul “come” si diventa giornalisti, con la sua scia di polemiche e massimalismi.
L’assunto del discorso è semplice e i suoi automatismi logici non lasciano scampo.
Tutto essendo “giornalismo” (citizen journalism, facebook, twitter, dilettanti allo sbaraglio, agenti provocatori, blogger, graffitari, ciarlatani: nessun l’ha stabilito, ma lo si dà per scontato), chiunque è di conseguenza “giornalista“.
Ne promana un’altrettanto disarmante, anzi sconfortante conclusione: tanto assodato e dato per irreversibilmente acquisito, occorrerebbe dunque adattare le leggi, le norme, le regole e i contratti a questa “evoluzione estensiva” della professione, in cui l’uomo della strada si installa al centro della scena e può contrabbandare per informazione tutte le sue pur legittime opinioni.
Olè.
Risolto in un baleno il problema dell’accesso all’ordine, della riforma, della formazione (continua o meno).
E risolto anche quello del compenso, equo o iniquo che fosse: non essendo più, lo scrivere per informare, un lavoro, con i suoi crismi e le sue forme, ma l’esercizio del sempre sacrosanto diritto ad esprimere la propria altrettanto sacrosanta opinione, il corrispettivo non si misura più solo in vile denaro (sebbene e comunque dovuto, ci mancherebbe), bensì nel premio allo sviluppo della personalità, nella gratificazione che se ne ricava, condita magari da quella dose di visibilità destinata a titillare la sottile smania di esibizionismo di certuni.
Vi ricordate la solita frase? “Todos caballeros“: vuoi mettere?
Nessuno che si ponga qualche domanda sui rischi di manipolazione dell’opinione pubblica, di sistematico conflitto di interesse, di vanificazione del principio di verifica della veridicità dell’informazione che possa derivare anche dalla sola teorizzazione di una tale mostruosità.
Macchè, tutti contenti.
E la fantasia supera la realtà, mettendo fuorigioco gli ex paladini americani che, stufi di aver collaborato gratis alla crescita dell’impero Huffington, provavano timidamente a farsi pagare il disturbo per aver fatto i giornalisti camuffati da blogger.
Proseguendo nel sillogismo, infatti, secondo alcuni dovrebbe a prescindere essere assicurato addirittura un contratto giornalistico (e cioè uno status professionale) ai dopolavoristi che prestano gratis la propria penna al Fuffington Post italico, ai fresconi che riempiono di fregnacce pescate in rete le pagine dei siti, ai furbastri che fanno la pubblicità occulta tramite i blog, agli elettrauto e ai postini che decidono di aprire testate on line “non registrate” (ma allora come si fa a chiamarle testate giornalistiche? Cosa le distingue, in mancanza di norme e di responsabilità, da un comune portale commerciale?), ai copiaincollisti, ai ciclostilatori e agli artigiani del tazebao.
Se è così, fermate la professione: voglio scendere!