Nessun domani per i giornalisti autonomi. Senza reddito, sindacato e una reale copertura pensionistica, anche il futuro è segnato. Crisi sociale imminente? Forse. Ma la pandemia non c’entra: il male viene da molto più lontano.

 

Credo che su Marte si abbia una visione edulcorata delle cose terrestri e che molti giornalisti-sindacalisti vivano proprio su quel rosseggiante pianeta.

Altrimenti non si spiegano certe ricorrenti astrazioni con le quali essi descrivono un mondo che è diametralmente diverso da com’è davvero.

Prendiamo la previdenza dei cosiddetti freelance, o meglio i liberi professionisti.

Il motivo dell’assoluta mancanza di prospettive pensionistiche degli oltre 50mila giornalisti autonomi italiani non è soltanto lo scarso reddito (fatto peraltro indiscutibile), nè le sole scarse prestazioni assicurate dall’Inpgi2.

Il vero motivo è l’effetto combinato dei due fenomeni detti sopra con un sistema previdenziale che, chiedendo al contribuente di versare appena dal 14% al 18% del proprio fatturato giornalistico, non potrà mai garantire a nessuno una pensione adeguata. Per banali motivi aritmetici: a bassi contributi corrispondono per forza basse erogazioni.

Per rendere le future erogazioni pensionistiche quantitativamente accettabili occorrerebbe che le aliquote salissero enormemente (fino ad assorbire in pratica l’intero reddito prodotto) o che il contribuente fatturasse come minimo, (e perciò in percentuale versasse), il decuplo di quanto mediamente fattura. Condizioni impossibili, è ovvio, nel mercato libero professionale del giornalismo già di ieri e tantopiù di oggi.

Ma perchè ci viene chiesta un’aliquota così bassa?

Perchè in 35 anni, cioè da quando è stata resa obbligatoria per chiunque svolga un’attività retribuita una copertura previdenziale, al legislatore non è mai venuto in mente, nè evidentemente nessuno gli ha mai spiegato, che nel giornalismo moderno la libera professione non è sempre il secondo lavoro, l’hobby, l’occupazione marginale e quindi la fonte di reddito integrativa di qualcuno che, per vivere, fa un altro lavoro “vero”.

Più esplicitamente: i freelance non sono sempre e tutti “pubblicisti” nell’accezione originaria del termine. Anzi, nell’ultimo quarto di secolo gli autonomi sono divenuti una quota preponderante dei giornalisti.

Per moltissimi, quindi, il giornalismo è “il” lavoro.

Un lavoro però mal pagato e per nulla tutelato (grazie Fnsi!), che, salvo rari casi, costringe quindi chi lo svolge a un’esistenza di precarietà permanente. E che paradossalmente spesso si mantiene in vita, quasi fosse il frutto di accanimento terapeutico, proprio grazie al fatto che al giornalista sono appunto chiesti contributi risibili, almeno in senso di sostenibilità previdenziale.

In altre parole, il freelance riesce a sopravvivere – male, ma a sopravvivere – anche e magari solo perchè paga all’Inpgi2 cifre modeste, tali da incidere poco su un reddito così scarso che, se gravato di oneri più elevati, potrebbe non bastare ad arrivare a fine mese.

In altri termini ancora: i giornalisti autonomi pagano sì la previdenza, ma pro forma o quasi.

Il che, al compimento dell’età pensionabile, si traduce però nella riscossione di una pensione altrettanto fatalmente “pro forma“, ovvero poco più che simbolica.

Mi rendo conto che sono cose impopolari da dire, ma vanno dette. A meno di non sapere come stanno le cose o di non averle comprese.

Il che, se è in parte giustificabile nel giornalista comune, non lo è in chi dovrebbe rappresentarlo.

Cioè, appunto, il sindacalista. Altrimenti significa che il sindacalista non sa fare il sindacalista e che il sindacato non sa fare il sindacato.

Due cose di cui, in effetti, non si dubita.

Però poi ci tocca leggere i piagnistei di chi crede che si possano alzare le pensioni degli autonomi lasciando tutto com’è ma facendogli condividere il destino, previdenzialmente parlando, con i “comunicatori” (autonomi anche loro, si capisce). I quali, oltretutto, pare non abbiano alcuna intenzione.

A riprova di quanto detto ecco i numeri del settore che emergono da un recente sondaggio Acta-Slow News e che riprendo da un comunicato della Commissione Lavoro Autonomo Stampa Romana.

Fra i giornalisti, oltre il 40% ha una partita Iva, mentre il 35% viene pagato con collaborazioni occasionali e diritto d’autore e quasi nessuno viene pagato se il prodotto editoriale non viene pubblicato. Le retribuzioni secondo il sondaggio Acta-Slow News – sono il tasto più dolente: il 68% porta a casa meno di 10mila euro lordi all’anno, mentre per un drammatico 42% le entrate annuali ammontano a meno di 5mila euro. Mentre il 32% dei comunicatori guadagna meno di 10mila euro lordi l’anno, ed il 25% riesce ad assestarsi fra 10 e 20mila euro. Inutile pensare anche un roseo futuro pensionistico per la maggior parte di queste tipologie di lavoratori: molti non sono nemmeno iscritti ad una cassa previdenziale di settore e non possono permettersi alcuna mutua“…

Più chiaro di così