La campagna elettorale per i delegati al congresso della salma sindacale è in corso. Isterismi e voltafaccia inclusi. Spiace per i colleghi convinti a candidarsi senza sapere di andare incontro all’inutile strage delle illusioni. Per i furbi, invece, dispiace di meno.

Il mondo dei giornalisti è pieno di gente brava, perbene, professionale, seria. E che, intenta a sbarcare il lunario, vive la realtà sindacale della categoria con la distanza che essa merita: cioè siderale.
Una distanza, sia chiaro, assai gradita al vertice. Al quale piace (eufemismo) fare ciò che vuole senza tanti seccatori attorno a disturbare il manovratore.
Questo magico equilibrio di reciproco disinteresse si rompe però quando bisogna andare alle elezioni. E cioè convincere gli iscritti al sindacato (sempre meno, per fortuna – infinitamente al di sotto della maggioranza – ma comunque ancora troppi considerando l’inerzia della Federazione)  a votare: impresa improba.
Gli elettori si dividono infatti in tre categorie: una stretta cerchia di pochi militanti disposti a tutto pur di sostenere la propria lista; una più ampia cerchia di simpatizzanti che però alla fine vanno presi per la collottola dai primi, mobilitati all’uopo, e tradotti alle urne; e un’infinita congerie di colleghi che, in qualsiasi stagione, nei giorni fatidici accolgono il famoso invito craxiano di andare al mare. Da qualche parte, come nella mia Toscana (chapeau!), è stato introdotto il voto elettronico, sistema inviso a molti perchè non consente i giochini di cui sopra. A Roma e nel Lazio hanno provato a fare uguale, ma  oggi il software si è inceppato (un caso?) perchè pare non offrire le garanzie di “riservatezza e regolarità del voto” e tutto è tornato al metodo tradizionale. Roba tragicomica degna di questo sindacato.
Un’impresa ancora più improba è però convincere qualcuno a candidarsi. Cioè a mettere la propria presentabile faccia a garanzia di liste bulgare le cui fila correntizie vengono tirate dai soliti capibastone asserragliati dietro certe tendine di Corso Vittorio a Roma, da qualche mese note come “le tremule” (vedi qui). E’ lì infatti che si tessono le tele lottizzatorie e le strategie poltronistiche destinate a rimanere sconosciute perfino ai candidati. O almeno alla vastissima quota di quelli che non sono collusi.
Tra qualche giorno, dunque, in Fnsi si vota e quindi sta per chiudersi la caccia ai presentabili.
I preferiti, per ragioni di squisita e pelosissima correttezza politica, erano i precari e le donne. Se poi erano donne precarie, era il massimo. Il Nirvana si raggiunge reclutando gente anche con una qualche notorietà o visibilità che, non avendo mai messo le mani in pasta, è quindi teoricamente ignara di come poi davvero funzionano le cose nelle segrete stanze.
Le armi che i persuasori occulti, incaricati del reclutamento dei malcapitati, adottano per irretire le prede sono sempre le stesse: blandizie varie, vagheggiamento di futuri luminosi e progressivi, spruzzate di ideologia o nostalgismi vari, promesse d’ogni tipo sia sul versante programmatico che su quello personale.
Oddio, non è che spesso gli intortati facciano migliore figura degli intortatori.
Fatta la tara di una pur vasta fetta di ingenui (l’ingenuità però, in questo mestiere, non è una virtù ma un difetto), abbondano gli ambiziosi, i narcisisti e gli incapaci, cioè quelli che sperano di fare qualche sorta di illusoria carriera aggrappandosi a poltrone, poltroncine, sedie, strapuntini e posti in piedi prospettati dai capataz.
Per settimane, nell’ambito del consueto gallinaio di personalismi e risentimenti incrociati che la campagna elettorale (re)suscita, si è così assistito a cose surreali.
Tizio che si candida nella lista di colui a cui aveva tirato uova marce poche settimane prima. Ribelli cronici folgorati sulla via di Damasco e pronti a rientrare nei ranghi perchè scusate, stavamo scherzando. Dischi rotti che a ogni consultazione riattaccano la litania della contestazione di ciò da cui, però, si guardano bene dal dimettersi. Minuetti e understatement di secondo, terzo e quarto grado in modo che ci sia sempre chi intende e chi non può intendere.
Ho assistito a cotanto sfacelo al caldo di un’incolmabile distanza, ma comunque tra sentimenti contrastanti.
Per un verso me la godo. Non certo grazie allo spettacolo indecoroso, che avvilisce la categoria, ma per la soddisfazione di vedere che certe antiche valutazioni non erano errate: non bisogna “cambiare il sindacato”, come tutti predicano, ma proprio “cambiare sindacato“. Impotenza degli articoli determinativi, insomma.
Per la stessa ragione, mi affliggo.
E un po’ mi irrito quando il solito furbetto della listina, tanto per capire da che parte potrei stare, finge di offrirmi posti che sa benissimo, in quanto del tutto disinteressato alla facenda, non accetterò mai.
Quindi non vedo l’ora che sia tutto finito e che il dramma ritorni ad essere la commedia di sempre.