di URANO CUPISTI
Su un rompighiaccio russo a propulsione nucleare ed ex centrale atomica “mobile” per piattaforme e miniere dell’Artico, il nostro raggiunge il Polo. Non prima d’aver brindato coi marinai postsovietici d’un sottomarino emerso dalla banchisa.

 

La nave, lo sapete (vedi qui), era un mostro. Un rompighiaccio nucleare, vera e propria “centrale atomica” galleggiante: il Jamal, disegnato nel 1986 e varato nel 1993. Il nome originale era invece Oktjabrskaja Revoljutsija (cioè “Rivoluzione d’Ottobre”) cambiato dopo la dissoluzione dell’Urss a favore di quello della penisola nell’estremo Nord russo.

Il Jamal era stato progettato per rompere il ghiaccio fino a 2,9 metri di spessore. Può spostarsi avanti, indietro e di lato. Supera le 23.000 tonnellate e può raggiungere velocità fino a quasi 40 chilometri all’ora, poco più di 21 nodi marini.

La nave, ma anche questo i lettori fedeli già lo sanno, al momento del mio imbarco, aveva una particolare caratteristica: una bocca di squalo aperta dipinta sulla prua.

L’Unione Sovietica prima e la Federazione Russa dopo hanno sempre puntato sull’Artico, sulle sue risorse minerarie e di idrocarburi, sulle immense riserve di gas, di terre rare. Da ultimo l’hanno scoperto anche come destinazione turistica.

Lavorare lì richiede per prima cosa una fonte di energia costante, maneggevole, che impieghi  uno spazio relativamente piccolo. Per questo l’allora Unione Sovietica dette vita al progetto della costruzione di centrali nucleari del tutto particolari, in grado di garantire alle piattaforme e alle miniere l’energia indispensabile per il loro funzionamento.

La cosa particolare è che queste centrali nucleari ambulanti erano e sono tutt’oggi imbarcazioni.

La Federazione Russa, pur continuando il progetto sovietico, oltre che  utilizzare  questi rompighiaccio  nucleari come fonte di energia per sostenere le attività estrattive, da più di un ventennio ha dato vita ad un progetto parallelo: lo sviluppo di un turismo d’avventura rivolto ai viaggiatori incalliti e ai turisti facoltosi.  Disposti quest’ultimi a spendere decine di migliaia di euro per confortevoli suite ricavate ai ponti più alti.

Insieme al mio amico pizzaiolo cinese-romano ribattezzato Mao occupammo una cabina standard twin, tra le più economiche situata al  ponte tre, con oblò esterno. Il capo spedizione, pure questo è noto, ripetutamente ci fece osservare che eravamo stati fortunati (per l’oblò).

Era notte fonda, si fa per dire, quando salpammo dalla baia delle Terre di Francesco Giuseppe. Il sole ben posizionato sopra l’orizzonte diffondeva una luce magica sulle acque calme. Lo Jamal iniziò a fendere le acque senza lasciare fumi dietro di se, solo scie spumeggianti.

Che strano per un figlio di un ufficiale di marina, frequentatore dei mari fin dall’ottavo anno di età, navigare su di una nave senza il fumaiolo tradizionale, con il rumore dei “motori” diverso: la propulsione nucleare, quel sibilare strano, inconsueto.

Devo dire che un po’ di angoscia, meglio definirla fifa, l’ebbi addosso. Quegli avvisi in cirillico, incomprensibili ma netti, tacitamente espliciti, sormontati dal simbolo “pericolo di radiazioni” a forma di trifoglio, attaccati dappertutto ad indicare le zone off-limits, proibite. Ci vollero un paio di giorni per abituarsi sul Jamal e considerarlo “familiare”.

Eravamo in cuccetta quando sentimmo rumori diversi, vibrazioni prima e sussulti dopo. Lo squalo a prua “mordeva” il pack.

Il capo-spedizione nel briefing mattutino ci informò che lo Jamal avrebbe avuto nel pomeriggio un incontro “particolare, inatteso”. E lo fu davvero. Ci aspettava il sottomarino TK-17 Archangel’sk della classe Typhoon. Costruito  presso il cantiere Sevmash di Severodvinsk.  Lunghezza 172 m larghezza 25 m altezza 23 m profondità operativa 400 propulsione nucleare, 2 reattori da 200 MW da 50.000 hp l’uno velocità in immersione 27 nodi  velocità in emersione 12 nodi.  Equipaggio 163 uomini. Tutti dati annotati sul mio moleskine  sotto dettatura del Capo Spedizione.

L’effetto mostruoso dell’incontro fu trovarselo improvvisamente di fronte accompagnato dal rumore assordante del ghiaccio infranto dalla sua  dimensione oltre l’immaginabile nell’emergere. Fischi prolungati di benvenuto sia da Jamal che da Archangel’sk. Gli uomini dei due equipaggi in parata e poi a scambiarsi saluti sul pack.

Fu preparata una tavola sul ghiaccio con tanto di sedie. Ne contai circa duecento. Libagioni a non finire e canti “camerateschi” preceduti dall’inno della Federazione Russa, testo scritto da Sergej Vladimirovič Michalkov sulle note musicali dell’inno sovietico usato dal 1943 al 1991 (autore della musica Aleksandr Vasil’evič Aleksandrov). Come sempre tutto annotato sul moleskine dietro dettatura del capo-spedizione.

Baci e abbracci, strette di mano e, dopo aver ben pulito il pack, ognuno per la sua strada. L’Archangel’sk sparì in verticale inabissandosi senza lasciar traccia, lo Jamal prese la via del Nord per arrivare alla meta.

Ancora miglia marine e, superato l’89° parallelo, fummo trasbordati con un elicottero fino al 90°.

Fu difficile localizzare il Polo Nord anche perché, nelle mie ricerche prima di partire, trovai ben quattro poli nord: quello geografico, magnetico, geomagnetico e dell’inaccessibilità.  Senza entrare nel merito scientifico delle terminologie il “nostro polo” raggiunto fu quello  in cui si incontrano i meridiani (polo geografico). Fu ancora una volta il capo spedizione a consacrare il punto esatto. Vero? Francamente 2 Km a destra o a sinistra non avrebbe cambiato niente in quella landa terrestre tutta uguale.

Gli strumenti registravano il 90° parallelo e per noi significava aver raggiunto la meta. Spumante del Volga in abbondanza, esultanza a non finire. Eravamo sul tetto del mondo, quello vero.

Le bevute continuarono a bordo fino a notte (bianca) inoltrata. Al mattino, quello segnato dall’orologio, il Jamal spinto dalle eliche laterali iniziò la manovra del ritorno e tornò a “mordere” il pack. Unico cruccio e rammarico: non aver incontrato nessun orso bianco nè foche.

Insieme ai trichechi ed alcune specie di volatili furono l’occasione di appuntamenti nel ritorno alle Terre di Francesco Giuseppe. Altre avventure nell’avventura.

Murmansk è una città di oltre 300.000 abitanti (dati al tempo del viaggio) posta nella penisola di Kola, sopra il circolo polare artico. La raggiunsi con un volo dalle Terre di Francesco Giuseppe. Il porto trafficato, la base navale della flotta del Nord composta da sottomarini e rompighiaccio nucleari alla fonda. Visione da far sbiancare tutti i “verdi” del mondo.

Città giovane (fondata dai Romanov nel 1915 poco prima della Rivoluzione bolscevica) fatta di casermoni, strade larghissime con tramvie che collegano le periferie con il centro per niente storico. Ancora qualche statua di Lenin qua e là, niente di più. Fu per me una città di passaggio per prendere l’aereo di ritorno via Mosca. Nessun particolare ricordo se non quella agghiacciante statua del milite ignoto dei ghiacci, alta 35 metri che guarda il mare verso nord. Si tratta di Alyosha, questo il suo nome, una risposta sovietica al Cristo di Rio de Janeiro (non è una mia affermazione ma bensì degli abitanti di Murmansk che ne vanno fieri).

Al molo Lenin (ancora lui) trovai il rompighiaccio nucleare Lenin (che fantasia) oggi adibito a museo, ormeggiato a perenne memoria delle “conquiste” del popolo russo. Non entrai. Mi era bastato il Jamal.

 

PS: sì, il sottomarino nella foto è americano: scusateci ma Putin non ci ha dato la liberatoria per i suoi.