di URANO CUPISTI
Che dire se un sacerdote in pareo e sottana di paglia ti fa da Cicerone nell’atollo polinesiano caro a Matisse e poi organizza pure una festa in tuo onore, con tanto di languide fanciulle? Ricordi di viaggio che non si dimenticano. E infatti…
Il piccolo turboelica impiegò poco più di un’ora per raggiungere Fakarava, nell’arcipelago delle Tuamotu.
Alla partenza da Papeete (Thaiti) osservai di sghimbescio quelli che sarebbero stati i miei compagni di volo. Alcuni giovani in divisa dai un collège cattolico che rientravano per il fine settimana, alcuni turisti già “etichettati” con tanto di maglietta dell’hotel di destinazione, amanti dello snorkeling e subacquei “veri”, facilmente riconoscibili vuoi dalle attrezzature che stivarono nella piccola “pancia” dell’aereo, vuoi per i capelli “sbionditi” da sole e salsedine, vuoi per l’abbronzatura, quella “perenne” che li contraddistingue. E poi un giovane prete thaitiano, che in seguito fu il mio personale Cicerone alla scoperta dell’isola.
Padre Jean stava ritornando alla sua parrocchia proveniente da Roma dove aveva trascorso tre mesi in ritiro spirituale. Miglior amicizia non avrei potuto chiedere. Conoscenza del posto, delle tradizioni, della storia dell’arcipelago e padronanza della lingua italiana. Cosa vuoi di più dalla vita? Un fakaraviano parlante italiano.
I “blu” di Matisse apparvero all’improvviso quando avvistammo dall’alto l’atollo Fakarava.
Incredibilmente diverso, strano. Di forma rettangolare con la terra che emerge lungo i lati. Due imboccature, canali fatti dall’uomo, che collegano l’oceano con quella laguna interna dalle infinite sfumature di blu che furono l’ispirazione della nuova fase artistica di Matisse: i colori creati per rendere libero l’uomo.
Padre Jean lungo tutto il volo mi preparò culturalmente a capire Fakarava.
“Nell’isola tutto sembra puro. La vita nei piccoli villaggi, con le viuzze fiancheggiate da buganvillee, pittoresche abitazioni con porte e finestre sempre aperte. Tutto a circondare questo atollo candidato ad entrare tra le riserve di biosfera dell’Unesco”. Correva l’anno 2002. Dopo quattro anni, nel 2006, la “consacrazione” Unesco a tutelare la ricerca, sorveglianza, formazione ed educazione della gente locale.
Nel piccolo aeroporto fu giorno di festa. I genitori ad attendere i propri figli, i responsabili dell’accoglienza turistica ovviamente vestiti con i tipici e coloratissimi parei ad accogliere i turisti, gli addetti ai vari “diving center” ad aiutare gli sbionditi e abbronzati perenni subacquei e la comunità cattolica ad accogliere con collane di fiori, bandierine francesi e “vaticane”, il loro parroco. Ed io festeggiato insieme a padre Jean.
Fakarava significa “bella”. Preferii da subito l’interpretazione più ampia del termine: “Che rende le cose magnifiche”. Perché così fu.
La sua lunghezza perimetrale è di 60 km per 21 km di larghezza per lo più laguna che copre una superficie di 1112 km². Nell’anno della mia visita era abitata da crca 700 persone concentrate maggiormente nel villaggio di Rotoava. Finalmente ero arrivato nel paradiso terrestre polinesiano. Poco importò se gli abitanti già vestivano all’europea; il contatto umano, le movenze tradizionali, il concetto del tempo avvolsero le mie giornate.
Le palme di cocco che si curvano sulla sua sabbia corallina il più delle volte bianchissima, le mante insieme alle tartarughe marine, ai pesci pappagallo, ai meravigliosi “nudibranchi” (i molluschi colorati).
A nord in prossimità del canale Pass di Garuae, il più profondo che permette il passaggio di navi relativamente più grandi, ammirai da una piroga abilmente guidata da padre Jean, il via vai di squali, pesci spada, delfini che entravano a “scaldarsi” nelle acque tiepide della laguna.
A sud, nei pressi del passaggio Tumakohua, con i fondali bassi, praticabile solo in presenza di alta marea, sembrò di essere immersi in un acquario dalle meraviglie sottomarine. Sempre a Sud arrivai, navigando in laguna, alla spiaggia rosa. Una distesa fine come la seta, che cambia colore al cambiar della luce durante il giorno. Vivere emozioni cromatiche uniche.
Ma il ricordo che è rimasto maggiormente nel cuore fu la festa in mio onore organizzata dalla comunità cattolica: la festa di Heiva. Festa e danze che affondano le origini nel tempo.
Solitamente si svolge nel mese di luglio ma padre Jean concesse una “dispensa” in mio onore. Tutti rigorosamente con pareo e sottanine di paglia (anche Padre Jean, irriconoscibile).
Fu in quell’occasione che, guardando le dolci fanciulle, i loro visi, capii le emozioni che invasero Gauguin e ispirarono le sue tele.
Festa, musica e le “inevitabile gare polinesiane”: dai portatori di frutta, alla regata con le tipiche canoe descritte da James Cook. Ma sicuramente la gara dei danzatori e danzatrici si rivelò la più gettonata. Le movenze notturne femminili illuminate dalle torce, risultarono accecanti quanto il blu diurno di Matisse. E la languida musica uscita dagli ukulele tahitiani divenne la “dissolvenza finale” di quel film di cui, il sottoscritto fu il protagonista.
Fakarava, nell’arcipelago delle Tuamotu. Quella notte finalmente gustai appieno, in tutti i sensi, con l’approvazione di padre Jean, il paradiso polinesiano.
(continua)