Sono stato a Milano senza pregiudizi e sono tornato senza giudizi. Per impossibilità di darne: tutto inaccessibile causa code chilometriche. Ma il digrignare di denti generale e l’aria di cartapesta del decumano non mi han fatto bella impressione.
Mercoledì scorso, finalmente, sono stato all’Expo.
Ma non ho visto nulla tranne qualche architettura esternamente interessante e code mostruose: impossibile entrare, se non con attese di ore, in qualunque padiglione. Tranne quelli più poveri o tristi, in pratica mercatini o stanzoni coi manifesti appiccicati con lo scotch, nei quali appunto non c’era niente da vedere.
In mezzo, il cosiddetto decumano: un’orgia di gente in gita a strascicare i piedi e, almeno in apparenza, intenta solo a bere o mangiare qualsiasi cosa.
Mandrie di scolaresche, svacchi e bivacchi d’ogni genere, transumanze di pensionati pullmanizzati, giovinastri rumorosi, famigliole smarrite, babbi in sandali francescani che spingevano passeggini con bimbi duenni tramortiti dal sonno e tenevano a braccetto mamme addobbate come lampadari e tacco 12 d’ordinanza.
Un collega straniero, credo tedesco, mi ha visto con il pass stampa al collo e stranito mi ha chiesto: “Ma con questo si può evitare qualche fila? Ho solo la giornata di oggi per lavorare e così non posso fare nulla“. Gli ho risposto che pensavo esattamente la stessa cosa. Se n’è andato smadonnando in caratteri runici.
Che nessuno abbia pensato che, all’Expo, c’è anche chi ci va per lavorare e non solo per transumare e che quindi vada agevolato, è incredibile. E’ come raccomandare l’uso dei mezzi pubblici e poi abolire le corsie preferenziali. Me lo diceva anche un tassista, la sera prima.
Insomma niente accesso ai fantascientifici padiglioni di Giappone, Russia, Cina e agli altri tanto raccomandati. Le fettucce a serpentone disseminate per regolare il traffico tipo check in aeroportuale misuravano la fila in ore: da qui in poi una, da lì in poi due, da lì ancora tre.
Del resto, è più scemo chi non pensa per tempo al modo di razionalizzare gli accessi a qualcosa che si preannuncia preso d’assalto o chi accetta di dedicare una giornata intera a stare in coda per vedere poi chissà che? Io non so rispondere.A un certo punto, per passare il tempo, mentre mi guardavo attorno con piglio sociologico ho cominciato però a fare associazioni di idee e ad accendere flashback.
Il primo risale all’agosto del 1980, Disneyland Anaheim, Los Angeles. Quaranta gradi all’ombra e due ore di fila per fare Splashdown Mountains o Pirates of Caribbeans (quelli di “yo-ho, yo-ho a pirate’s life for me…“). Se al posto dei pirati dei Caraibi ci avessero messo il rum o la canna da zucchero, la situazione in Expo sarebbe stata identica, terrificante steel band inclusa.
Il secondo è più recente e domestico: m’è tornata in mente la Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che ora è proprio alla Fiera di Milano a Rho, ma che quando era bella la organizzavano in città, in quella oggi chiamata FieraMilanoCity. Stessa situazione: megastand, megapadiglioni, vessilli e bandiere, gente a caccia di gadget, mescite di birra, orchestre caciarone, sciampiste eccitate e paesi, anche i più improbabili, nel padiglione “The World“. Stesso caos, stessa folla, stessa curiosità un po’ ingenua e un po’ provinciale che ho trovato anche all’Expo. Unica differenza: lì non si mangiava.
Sul senso recondito dell’Esposizione milanese, le sue contraddizioni, le sue opportunità, la sua (non necessariamente negativa) strumentalità non mi addentro, tanto è già stato detto tutto: ha fatto girare parecchi soldi e questo, da un certo punto di vista, è un successo. Il resto sono chiacchiere spesso retoriche.
Se però mercoledì alle 16, dopo trecentosessanta minuti in piedi, mi fossi trovato ad ancora
centoventi giri di lancette dalla meta, mi sarei fatto la stessa domanda di Bruce Chatwin: “Ma io che ci faccio qui?“.
O forse me la sarei fatta prima.