Le verdure sul balcone e l’agricoltura di prossimità sono facce di un fenomeno che, se ha lodevoli scaturigini etiche e una propria, marginale ragione economica, mal si concilia con la realtà di certe “mission” planetarie. E se la virtù stesse a metà?
In un bell’articolo, pubblicato (qui) sul suo blog e mordacemente intitolato “McDonald’s had a farm“, la collega Serena Guidobaldi passa in obliqua rassegna le variegate contraddizioni che, sospese tra idealismo a volte disarmante e opportunismo spesso tanto rapace da sfumare in pura furbizia, avvolgono il fenomeno del “km zero“. Ovvero quella scuola di pensiero che comincia con l’idea di un’agricoltura di prossimità, fatta cioè di piccoli volumi destinati ai mercati locali, e finisce con la dilagante aspirazione autarchica che spinge sempre più persone a praticare, o almeno a vagheggiare, l’orticoltura da davanzale. Le motivazioni sono anch’esse proteiformi: dall’idea romantica di farsi in casa cose “buone, pulite e giuste” a quella, più prosaica ma non meno comprensibile, di risparmiare producendo sul balcone ciò che abitualmente si compra al mercato.
Rimando alla lettura del pezzo per una delibazione più approfondita.
Il senso comunque è il seguente: occhio a illudersi che vendere qualche chilo di verdura al giorno al mercatino rionale possa dare all’agricoltore il reddito necessario per sbarcare il lunario: al massimo, invece, rischia di dare buoni argomenti di marketing agli imprenditori (non agricoli, va da sè, come ad esempio i ristoratori) capaci di fiutare il trend e di assecondarlo. Sempre che poi, al banco del supermercarto o al tavolo del ristorante, non arrivino consumatori evoluti che sappiano leggere tra le righe delle stagioni e dell’agronomia.
Per parte mia, l’intera questione ruota attorno a un equivoco piuttosto evidente, che chi aveva interesse a diffondere ha però anche abilmente alimentato: ma chi l’ha detto che “locale” è per forza meglio – più buono, più giusto, più sano, più etico, più economico – di ciò che viene da lontano? La verità, a mio parere ovvia, è che può sì essere migliore, così come può essere peggiore. Dipende da tanti fattori. Le visioni manichee appartengono alle ideologie, non alla realtà. E la realtà dice che, se prezzo e qualità spesso fanno a pugni, la maggior parte delle volte è il primo a vincere.
Senza entrare nella lana caprina dello stabilire in base a cosa, e in riferimento a quanto, qualcosa giunga da vicino o da lontano, sia locale o meno, pongo una provocatoria domanda-esempio: è meglio un’insalata che arriva sulla bancarella da 100 km di distanza, ma trasportata con un’auto elettrica o a dorso di mulo, o un’altra che ci arriva da 10 km, ma a bordo di un inquinantissimo e scarburatissimo fuoristrada che erutta fumi tossici? Ed è migliore la zucchina prodotta in loco da un’azienda dal pessimo bilancio energetico o quella prodotta molto più lontano ma da un’azienda energeticamente virtuosa? Per favore, ora nessuno adesso tiri fuori sofismi sostenendo che, essendo a sua volta il viaggio una forma di “impatto”, nel computo vanno anche calcolati i km di asfalto e bitume impiegati nella costruzione della strada, con relative emissioni.
Insomma, scindiamo il marketing e i suoi argomenti dal resto. Ed evitiamo di vagheggiare rivoluzioni culturali ed economiche planetarie che, piaccia o meno, non sono nelle corde del mondo che ci circonda.
Senza dimenticare che produrre derrate agricole, così come produrre auto o detersivi, o è un hobby (cioè qualcosa che si fa per passione e che ti dà soddisfazione, ma costa denaro e non ne dà) o è un’attività economica (cioè qualcosa che invece si esercita, legittimamente, per produrre reddito: se il reddito non c’è, si chiude). Discorso – tanto per aprire alle divagazioni esiodee cui accenna Serena nel pezzo – che vale perfettamente anche per l’esercizio delle libere professioni, ad esempio quella giornalistica: o campi d’altro e lo fai per passatempo, oppure ci campi e allora i conti devono tornare e i sogni, la poesia, la passione, i blablabla li lasci almeno in gran parte nel cassetto. Chiusa parentesi.
Siccome il mondo è bello perché è vario, di produrre redditi, e anche debiti se è per quello, esistono tanti modi diversi. Nessuno dei quali esclude l’altro, contribuendo anzi tutti a costituire quel sistema complesso che è una società evoluta, o involuta, vedete voi, come la nostra. Ovvero: mica è proibito che il local farming o il km zero coesistano con un sistema articolato, organizzato, esteso, industrializzato, globalizzato. Sono mondi che si intersecano. Destinati a convivere, per forza e per amore. Quello che fa la vera differenza è l’appeal che il prodotto riesce a esercitare sul consumatore, in base alle leve della qualità (sostanziale o apparente) e del prezzo, determinando l’acquisto finale.
Non a caso tutti, a parole, predicano il bio e il km zero e poi corrono alla coop a comprare i prodotti industriali, che ovviamente costano meno per altrettanto ovvie ragione di economie di scala.
Che prima o poi anche la ristorazione si sarebbe aggrappata – con la classica miscela di sprovvedutezza e furbizia – al trenino del local farming, per attirare clientela e autopromuoversi, era altrettanto inevitabile. Direi quasi fisiologico. Del resto, il cliente del ristorante è lo stesso che, dicevo sopra, inneggia al locale e poi compra l’industriale.
C’è chi, come lo chef pugliese Pietro Zito, ha capito che il valore aggiunto dato dal servire a ristorante le verdure del proprio orto non consiste nel guadagno materiale diretto e/o nel risparmio sui costi rispetto all’acquisto da fornitori esterni, ma nel “di più” etico e promozionale che ne deriva: in pratica Zito accetta di produrre e servire in perdita, economicamente parlando, verdure che però, per altra via, si ripagano in prestigio, credibilità, affidabilità. Aggiungiamoci pure il fattore personale, emotivo e passionale che Zito mette in campo e il caso è chiaro.
E poi c’è chi, come gli ingenui o i furbi di cui sopra, non sa fare i conti. Oppure li sa fare benissimo e si comporta come tanti che allestiscono bancarelle di frutta e verdura ai “mercatini locali”, versione casereccia dei farmers’ market: la mattina presto vanno ai mercati generali, comprano qualche quintale di prodotti, li mescolano ai pochi kg di quelli raccolti davvero nell’orto di casa e li vendono (oltretutto, per una sorta di contrappasso ortofrutticolo, più brutti sono e più paiono buoni) a un consumatore alla ricerca non tanto di alimenti di qualità oggettiva, ma di acquisti in grado di generare effetto placebo.
Lo stesso si può dire dei ristoratori che vantano menu stagionali, locali e autarchici, ma poi si tradiscono con rotazioni maldestre e contraddizioni etiche.
Si potrebbe a questo punto aprire un’ulteriore parentesi, buttando nella mischia l’argomento dell’effettiva capacità del consumatore medio di riconoscere organoletticamente e di apprezzare la qualità di quello che mangia. Ma sprofonderemmo in un discorso infinito e privo di uscita.
Ne apro invece un’altra, più concreta.
Si diceva sopra, e spero nessuno lo contesti, che l’agricoltura è un’attività economica. Finalizzata cioè alla produzione di reddito. Il che non giustifica che il reddito vada perseguito con ogni mezzo, certamente. Ma neppure che l’imprenditore debba essere costretto ad azzerare i propri guadagni o a fallire nel nome di principi etico-teorici. Nel nome dei quali si farebbe prima, casomai, ad abolire del tutto l’esercizio di certe attività.
Il problema è che, dove certe produzioni agricole non hanno alternative economiche, le strade sono due. O le si sostiene, offrendo all’agricoltore l’opportunità di ricavare redditi integrativi (trent’anni fa fu il caso, poi degenerato, dell’agriturismo) o le si assiste attraverso la scelta politica, determinata dal riconoscimento della funzione anche sociale dell’agricoltura, di elargire contributi pubblici. Insomma i cosiddetti premi.
Il punto critico di ambedue i sistemi, che anche Serena adombra, è che se i redditi agricoli principali continuano a decrescere, il ruolo di mantenere in vita le aziende ricade sui redditi “integrativi”, che tendono a restare gli unici e quindi diventano, giocoforza, principali. I ruoli insomma si capovolgono. Ragion per cui le imprese è proprio su questi che finiscono per investire e per basare la loro stessa sopravvivenza.
Il che dà vita a certe storture, non c’è dubbio. Per restare nell’esempio dell’agriturismo, terminata la fase di recupero dei fabbricati rurali dismessi, alla fine degli anni ’90 da parte di molti partì la caccia alle nuove, più improbabili cubature e all’aumento fantasioso di quelle già esistenti, allo scopo di aumentare la capacità ricettiva aziendale e quindi il reddito (un fenomeno a cui con sgomento abbiamo assistito in diretta, finchè la crisi ha fatto giustizia della patologica proliferazione). O, per dar fiato ai casi citati da Guidobaldi, con certe forme di set aside o con i premi comunitari basati sulla superficie coltivata anziché sulla produzione: provvedimenti che, nei loro effetti patologici, dettero il via alla caccia ai terreni seminativi, con spietramenti, ruspature distruttive del suolo e rovina del paesaggio.
Come si concilino la missione dell’Expo (“Sfamiamo il mondo”), e quindi, coerentemente con una nozione economico-produttiva dell’agricoltura, la messa a coltura delle massime estensioni possibili di suolo per ottenere la massima produzione possibile di raccolto, con l’idea che quei medesimi suoli debbano essere preservati nella loro sostanza estetica e naturale, per non dire musealizzati, e comunque resi soggetti a una coltivazione “soft” adatta all’autoconsumo o al piccolo commercio di prossimità, mi sfugge grandemente.