Nella sua miscela di arte e istinto, la cucina è la regista occulta di una vicenda quotidiana che a sua volta, in tavola, mescola ricerca e piacere. Il desco è quindi il teatro dove ogni giorno vanno in scena vizi e virtù, pace e guerra. Di tutto questo il nuovo romanzo di Massimo Paperini è la bandiera.
Per uno che si occupa di enogastronomia come me, venire a conoscenza del fatto che è appena uscito un romanzo storico, scritto da un proprio conterraneo e che racconta una storia costruita non solo attorno alla figura di un cuoco, ma a quella della sua cucina e dei luoghi, dei contesti, dei deschi attraverso le quali essa si propaga, è una istigazione alla lettura irrestistibile.
Subito dopo, prima ancora che il volume sia tra le tue mani, ti assale però il dubbio che possa trattarsi della solita banalità, come certi romanzetti inconsistenti che l’industria editoriale vomita a raffica solo per inserirli nel filone, di gran moda, della pubblicistica gastronomica e dell’uso quasi pornografico che, della materia, si fa in tv.
Mi è bastato leggere le prima trenta pagine, o forse meno, de “Le cene inutili” di Massimo Paperini (Neri Pozza, 2016, 240 pagine, 16.50 euro) per rendermi conto che quel rischio non c’era.
E che nella penna di Paperini, di professione tecnico di regia per la tv commerciale, si nasconde non solo un estro narrativo gentile, colto, lieve, ma una conoscenza della cucina che certamente rivaleggia con quella che l’autore ha della psicologia.
La storia è bella e ben congegnata: a cavalcioni tra 8 e 900, un oste dotato di talento, figlio di oste talentuoso, scopre la sua strada aprendosi pian piano al mondo e liberandosi presto di un destino già scritto che lo vorrebbe tra le calde, quanto remunerative pareti della trattoria fiorentina di famiglia. Da Firenze scappa invece a Fiesole sposando una vedova opportunista e fedifraga, da qui rimbalza a Monza, dove il regicidio di Umberto I infrange certe sue acerbe speranze, quindi molla tutto e, quando i tuoni di guerra già bubbolano all’orizzonte, va a Liegi, dove le bombe tedesche seppelliscono presto il suo già avviatissimo ristorante e il suo nascente amore.
Ma la vera avventura umana e gastronomica comincia proprio qui e si protrae a lungo, transitando come un dirigibile su Weimar e i due conflitti mondiali, attraverso le miserie del suicidio dell’Europa e tra le pieghe di un’umanità che trova, fatalmente, anche o forse soprattutto a tavola il terreno di confronto più autentico, diretto. Confronto del quale lo chef è, al tempo stesso, giocatore e arbitro, lettore e commentatore.
La scrittura di Paperini è brillante, il ritmo del romanzo sempre sostenuto nella sua composta, acuta pacatezza.
E la cucina è realmente, tra teglie sbattute e bicchieri scolati, il termometro degli eventi, la cartina di tornasole degli stili di vita e degli umori che mutano nel tempo incredibilmente veloce e incredibilmente mutevole nascosto tra le portate della vita.
Alla fine ti accorgi che “Le cene inutili” non è gastronomia prestata con una scusa alla letteratura, ma letteratura che utilizza la cucina come un’intima sonda della società e delle sue vicende.
E’ un’idea narrativa nemmeno originalissima, a pensarci bene, ma di cui l’autore sembra capace di fare un uso sapiente, calibrando i toni e il racconto come se fossero gli ingredienti elencati nel quaderno foderato di pelle d’agnello che l’io narrante ha ereditato dal babbo. Un ricettario da cui, alla fine, tutto nasce e ove tutto rifluisce.