Elegia di una giornalista e di un professore gentili in tutti i sensi. Insieme per una vita e mancati a tre settimane l’uno dall’altra.
Lidia era una bella, intelligente, raffinata signora. Aggettivi non in ordine di importanza, né di prevalenza.
Lei sapeva di essere tutte queste cose e lo dimostrava con una levità che le comprovavano.
Suo marito Mario, idem. Era un professore e faceva di tutto per evitare di apparire tale.
Per molto tempo mi hanno onorato della loro amicizia e, soprattutto, di una stima che, per come era espressa, mi imbarazzava.
Per un po’, sospinti dalle vicende della vita e del lavoro, ci siamo visti spesso, anche se non proprio frequentati, a causa di una distanza geografica non trascurabile.
Lei, oltre che un’esperta di rose e di miele, era una collega brava e colta. E aveva l’onestà morale di non nascondere il suo status. Quindi evitava le pose da forsennata che spesso noi giornalisti assumiamo.
Ho provato a fare il conto del tempo da cui non ci vedevamo.
Tanto. Forse dieci anni?
Eppure in qualche modo ci siamo sentiti vicini con radi – sempre più radi, a dire il vero – messaggi. L’età, le circostanze, sapete com’è.
Fino a oggi.
Quando leggo sul giornale che lei e Mario se ne sono andati ad appena venti giorni di distanza l’uno dall’altra.
Lidia aveva due begli occhi diafani e austroungarici. Infatti era di Trieste. Mario invece pareva proprio, non solo per fisiognomica, uno dei nostri. Infatti era senese.
Ora sono qui a ricordarli com’erano: sobri, acuti, educatamente goderecci, capaci di conversare e sorridere con misura su tutto, ma proprio tutto.
È molto bello da rammentare adesso. E anche molto triste.