Il Mattino perde la causa e vuole dalla collaboratrice 50mila euro per risarcire il diffamato, sebbene la diffamazione non sia stata frutto dell’articolo, ma del titolo e della mancata rettifica. Ne nasce un caso nazionale. Di cui nessuno, però, coglie il profilo davvero inquietante. Preferendo guardare il dito anzichè la luna.

Chiamatemi polemico, chiamatemi rompi. Ma mi pare che si stia facendo una grande e controproducente confusione sul caso di Amalia De Simone, la collaboratrice del Mattino di Napoli alla quale, sollevando alto rumore mediatico e le solite indignazioni a corta gittata, l’editore ha fatto causa chiedendo di essere risarcito di 52mila euro, pari al 70% della somma a cui il giornale era stato condannato dopo la soccombenza in un processo per diffamazione.
Diffamazione che però, attenzione, non è consistita nel contenuto dell’articolo scritto dalla De Simone, ma nel titolo e nella ritardata pubblicazione della rettifica. Nessuno dei due, quindi, attribuibile alla giornalista, che era appunto esterna alla redazione.
Ora, fermo che, a mio modestissimo parere, per la sfortunata collega non sarà difficile veder respinta dal giudice la pretesa della testata, essendo la richiesta, per i motivi sopra detti, palesemente infondata, ed esprimendo anche tutto il mio stupore per la malaccorta e temeraria azione civile promossa dal Mattino, vorrei però richiamare l’attenzione di tutti voi su alcuni aspetti che, nel generalizzato tentativo di strumentalizzare la vicenda in chiave politico-sindacale, rischiano di restare in secondo piano, portando ulteriori danni alla già zoppicante categoria dei giornalisti e sviando l’attenzione dai veri problemi di cui il caso è il più lampante dei sintomi.
Primo: si è parlato, con strepito e labbro tremulo, di “giornalista precaria” o, peggio, di “collaboratrice precaria”. Il che è non solo una sciocchezza dal punto di vista tecnico e giuridico (o si è collaboratori esterni o si è precari, cioè titolari di un contratto a termine), ma, se così recepita, la cosa rischia di danneggiare processualmente la povera Amalia: l’unica e secondo me inoppugnabile certezza a discarico della quale sta proprio nel fatto che, essendo ella “esterna”, cioè estranea al corpo redazionale, non poteva né potrebbe avere avuto alcuna responsabilità o coinvolgimento nella mansioni, tipiche della redazione, della titolazione degli articoli e della scelta della pubblicazione (nonché dei tempi) dei medesimi. Rettifica inclusa.
Secondo: il discorso potrebbe processualmente cambiare (in peggio) se si dimostrasse invece che la De Simone operava effettivamente da precaria (cioè da redattrice a termine) o anche da abusiva (in pratica lavorava al nero), perché – fermi i profili giuslavoristici della faccenda, nonché la necessità di stabilire il ruolo e la responsabilità della collega in merito a titoli e a pubblicazione di articoli o rettifiche – in questo caso sarebbe difficile negare che la giornalista facesse effettivamente parte della redazione.
Terzo: sebbene impropriamente (perché, come detto sopra, il danno tradottosi in condanna è stato procurato all’editore dal titolo diffamatorio e dalla ritardata rettifica, non dal contenuto dell’articolo de quo) la vicenda dovrebbe far drizzare l’antenna su una questione di stretta attualità, che purtroppo è però ancora poco compresa dai colleghi nella sua reale importanza e nella sua potenziale portata. Quella dell’assicurazione obbligatoria che, nell’ambito del progetto globale di riforma delle libere professioni, il governo Monti sta portando avanti e che, pertanto, pende pericolosamente sulla testa della nostra categoria assieme a tutto il resto del “pacchetto”, con scadenza il prossimo 12 agosto.
Si tratta, è bene ricordarlo (mesi fa l’ho anche approfondito qui), della polizza di cui l’iscritto a un qualunque ordine professionale riconosciuto dall’ordinamento italiano dovrà o dovrebbe essere dotato a copertura dei “danni procurati al cliente” e quindi, nel caso dei giornalisti, all’editore.
Affrontando la spinosa faccenda della riforma, nello scorso inverno il consiglio nazionale dell’OdG ha trattato l’argomento, ma forse lo ha troppo sbrigativamente discusso, liquidandolo con una sorta di petizione, rivolta al ministro Severino, di tenere in considerazione la “peculiarità” della professione giornalistica in rapporto al paventato obbligo di copertura. Peculiarità indubbia, la nostra, ma che forse, in un mercato del lavoro giornalistico sempre più orientato verso il ricorso a figure esterne, cioè ai liberi professionisti o ai cosiddetti “autonomi”, ovvero figure estraneee al corpo redazionale, lascia uno spazio sempre più ampio all’eventuale insorgere di azioni civilistiche di risarcimento da parte di editori danneggiati verso i giornalisti non legati alla testata da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Ecco, vorrei che il caso De Simone servisse a Ordine, Fnsi e a tutti i colleghi anche per mettere a fuoco queste problematiche relativamente inedite, ma assai insidiose, insite nei nuovi modi di esercizio della professione, anziché spingerli a cavalcare pur condivisibili moralismi e azionare le sempre facili ma effimere (oltre che povere di risultati pratici) leve dell’indignazione.

PS: poi è pur vero che le pretese avanzate dall’editore nei confronti della giornalista napoletana sono, oltre che singolari, inusitate. E che, da che mondo è mondo, il giornale e il direttore difendono, e non accusano, i propri collaboratori, ma che volete farci? Lo stile è una merce sempre più rara, al giorno d’oggi!