Oppure siamo fritti? Tipico (ma augurale!) piagnisteo di fine anno su giornalismo, agricoltura, musica, sport e dintorni.
Ed eccoci a Frìttole. Insomma – come per Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere” – al punto di svolta, al confine invisibile, al diaframma che ci separa da qualcosa: dall’anno vecchio, dal decennio che si chiude (già, perchè il 2010 è il primo anno del nuovo decennio e non l’ultimo del precedente), dagli eccessi natalizi con promessa di dieta dall’1 gennaio.
Oddio, più che a Frìttole, mi sembra che siamo fritti. O forse è la stessa cosa?
La cosiddetta ripresa economica tarda. Mi chiedo se sia giusto attenderla o se invece augurarsi, come spero, che non arrivi mai e che tutti noi torniamo a settarci su uno stile di vita più sobrio e meno inutilmente dispersivo. Per Natale predicevano disastri e invece le strade erano intasate di gente alla ricerca di regali. Segno che magari la spesa e i fatturati si saranno ridotti, ma le (cattive?) abitudini ancora no. Ce n’è di strada da fare. Tra un po’ cominciano i saldi. Le associazioni dei consumatori predicono sfracelli (un calo di vendite a saldo del 5% è da considerarsi uno sfracello? Mah…! Nel senso che è tanto o poco? Boh!), mentre la gente scopre che giacche, scarpe e vestiti dell’anno scorso sono ancora confortevolmente portabili e che nessuno o quasi si accorge della differenza (e anche se, chissenefrega?).
Per i giornalisti, come si dice in Toscana, “passano basse”. Insomma, è un casino. Nelle redazioni ridotte all’osso, i superprotetti, supergarantiti, supersindacalizzati giornalisti assunti provano finalmente, visto che gli editori hanno tagliato la manovalanza dei collaboratori esterni da taglieggiare, la singolare ebbrezza di lavorare. Del tipo: scrivo più di un pezzo al giorno o (follia!) non impiego più un’intera giornata per fare una decina di didascalie. Come l’altra metà dei capponi di Renzo, i collaboratori prima sottopagati (masochisti!) e poi messi alla porta si godono compiaciuti lo spettacolo degli stenti altrui e intanto sfogliano le offerte di lavoro (diverso da quello giornalistico, è sottinteso) sugli annunci economici.
I pochi che galleggiano, ovvero i freelance di antico pelo e di profonde cicatrici, navigano a vista. Per loro un po’ di spazio c’è sempre (se uno ha passato vent’anni a specializzarsi nel tango o nell’hockey su prato, qualcuno che ogni tanto ha bisogno di un articoletto tecnico ci sarà pure, no?), basta sapersi accontentare e tenere d’occhio i bilanci familiari, come una volta facevano gli artigiani in bottega.
E l’agricoltura? Ah, è un mondo a sè, fantastico, surreale. Tutti ne parlano o, peggio, ne scrivono, ma non ne sanno un tubo. Dipingono un mondo immaginario in cui anche la crisi che dipingono non ha riscontri con la realtà. Sembra che il de profundis del mondo rurale sia stato sancito dalla crisi economica. Una barzelletta. Quella dell’agricoltura è stata un’asfissia lenta e ormai irreversibile, di cui solo ora, che il quasi cadavere è cianotico, ci si accorge. La campagna è stata strangolata dalla burocrazia, una politica dissennata, scelte non solo sbagliate ma diabolicamente reiterate per decenni, equivoci mai chiariti sulla natura del lavoro agricolo e sulla funzione dell’agricoltura, sbornie collettive plasmate su modelli errati e irrealistici di “sviluppo” (virgolette d’obbligo per un termine quasi antinomico rispetto all’essenza della ruralità).
Morale: anche nel mondo agricolo, come nel giornalismo (e con tutti i mille distinguo dei diversi casi, è ovvio), si galleggia. Si spera di non affondare. Di approdare da qualche parte sulla terraferma. Ma che anche questa sia una terraferma vivibile resta tutto da provare.
La musica…mah! L’eccessiva tecnologicizzazione non solo nel produrla, ma soprattutto nell’ascoltarla, l’ha ridotta a un prodotto di consumo puro, un kleenex dell’udito: usa e getta. Svuotato di contenuto il senso dell’oggetto (addio LP, addio perfino cd) il suono non ha consistenza materiale, immagine, riconoscibilità, fisicità. Tutto si “scarica”, si mette sull’ipod e si utilizza per il proprio autismo fatto di auricolari e pc perennemente on line su Face Book. Musica non più ascoltata insieme e commentata a caldo, ma solo condivisa virtualmente con “amici” anch’essi per la maggior parte virtuali. Come leggere un romanzo su un pannello a scorrere anzichè in poltrona sfogliando, soppesando, accarezzando le pagine.
E adesso, per chiudere il quadro, dovrei dire due parole anche sul resto: i viaggi, lo sport. Ma ne vale la pena? La Gazzetta già ci ammorba con l’elezione dello sportivo del decennio. Lippi vuol portare ai mondiali le mummie di quelli che furono campioni nel 2006 (e quindi probabilmente finirà come nel 1974 e nel 1986). Viaggiare? Non lo si fa più. O sono viaggi organizzati per riprodurre altrove i difetti di casa propria (ha senso andare a Mauritius per nuotare in piscina o in cima al Cervino per ballare al rifugio anzichè per sciare?), o sono tornati ad essere pericolosi (e questo è un bene: viaggiare e fare turismo sono due cose ben diverse, a ognuno il suo!). E soprattutto, nessuno li racconta più. Non li si racconta perchè non si viaggia. Non si viaggia perchè più nessuno ti manda a fare un viaggio per poi raccontarlo. Ne risulta che i viaggi raccontati di cui si legge in giro sono il frutto della fantasia.
Cioè sono viaggi a Frìttole…
Auguri a tutti.