E’ chiaro che l’equo compenso è l’arma segreta di una guerra combattuta sulla pelle degli autonomi. In un groviglio di strategie e cointeressi dei quali noi siamo solo ingenuo strumento. Le ultime vicende stanno però facendo cadere la maschera. Colleghi, sveglia!
A volte penso perfino che tutto, fin dall’inizio, sia stato fatto a sommo studio.
E cioè che da subito l’infinita telenovela dell’equo compenso – sia nella fase pre che nella fase post legislativa – sia stata studiata a tavolino per essere ciò che, alla fine, si sta rivelando: uno strumento dilatorio. Dilatorio e funzionale a tutto il resto: alla soluzione dei problemi legati alla riforma della professione, ai nodi di potere legati alle varie tornate elettorali di OdG e di Fnsi, alle voci scomode dei rinnovi contrattuali, al redde rationem giornalisti-editori, alle italicissime manfrine congressuali.
Con la non trascurabile virtù, però, di tornar utile anche per i terzi fini su cui la politica giornalistica non disdegna certamente di lucrare: gli sprint intermedi, i gran premi della montagna, i traguardi a punti, l’accaparramento di maglie e poltrone, l’ammansimento dei ribelli, la pastura delle correnti. Insomma tutta la fuffa politicante.
Tanto per cominciare, diciamo una cosa tragica e impopolare, ma vera: sotto il profilo tecnico, quando afferma che la legge sull’equo compenso non è applicabile a tutti i giornalisti autonomi, ma solo ai cococo, forse (solo forse: lo approfondiremo in un prossimo post) Treu ha ragione.
Il codice civile, che è una legge ordinaria, demanda davvero (art 2233) la determinazione dei compensi tra committente e libero professionista alla libera contrattazione. Per derogare al codice occorrerebbe che una norma di pari livello gerarchico, cioè un’altra legge ordinaria, disponesse norme diverse, abrogando così quelle corrispondenti del codice. Ma la legge 233/2012 sull’equo compenso non fissa direttamente il minimo, derogando al codice, bensì ne demanda la fissazione a un decreto ministeriale. Che, gerarchicamente, è fonte del diritto inferiore alla legge ordinaria: quindi, diritto alla mano, il consulente del sottosegretario e presidente della commissione, Tiziano Treu, dice bene quando afferma che l’equo compenso non può essere applicato agli autonomi in generale, ma solo a coloro che da un lato non siano titolari di un contratto di lavoro dipendente e dall’altro non siano liberi professionisti. Restano allora solo i cococo. Cioè, ben che vada, il 25% del totale degli autonomi. Morale: tanto casino per nulla o quasi.
Tralascio le tante considerazioni di riempimento e completamento che si potrebbero fare (non so in effetti se la determinazione di un equo compenso, in quanto minimo unico inderogabile e non in quanto tariffario, e in quanto principio di portata etica e non tariffa, sia davvero incompatibile con la norma che sancisce l’obbligo della libera contrattazione fra le parti per i compensi professionali; nè so se la situazione attuale sia compatibile con il richiamo al rispetto del decoro della professione espresso dallo stesso art 2233 a proposito di compensi) e vado al sodo.
Prima domanda: ma gli esperti, i giuristi, i giuslavoristi di parte OdG, Fnsi e Inpgi perchè non si sono accorti prima, non hanno fatto caso a questo fondamentale dettaglio di gerarchia legislativa, in sede di elaborazione e di discussione della proposta di legge? Ora sarebbe inammissibile farsi neutralizzare, anzi scippare letteralmente, l’arma dell’equo compenso per una negligenza simile.
Seconda domanda. Perchè l’esistenza del parere espresso da Treu, noto da mesi e così limitante per la soluzione del problema vero (cioè l’individuazione di un compenso minimo, unico e inderogabile valido per tutti gli autonomi), nonchè proprio per queste ragioni amatissimo dagli editori, è stato così sottovalutato, ignorato, sottaciuto, minimizzato dalle nostre organizzazioni anche durante gli ultimi mesi di pur veementi dibattiti, liti, trattative, accordi sopra e sottobanco sull’argomento? O forse il tema è stato appunto lasciato in sordina perchè faceva comodo a tutti i giocatori in campo fare melina, nascondendo la polvere sotto il tappeto?
Terza domanda: il reale scopo di tutto l’ambaradan messo in piedi nell’ultimo biennio era davvero avere un equo compenso, cioè ottenere una soluzione concreta della questione del lavoro sottopagato, o solo ottenere una legge nominalmente dedicata alla materia, da affiggere al petto come un’onorificenza, per fare da tacca sul calcio del fucile delle presunte benemerenze attribuibili alle istituzioni giornalistiche?
Francamente non so decidermi tra la teoria della malafede e quella dell’insipienza. La prima sarebbe peggiore, ma non escludo neppure che le due cose si sovrappongano, in un abbraccio mortale (per noi, è ovvio).
La spiacevole sensazione di un raffinatissimo meccanismo a orologeria, progettato affinchè, gattopardescamente, tutto finga di cambiare affinchè tutto rimanga uguale, si è insinuato ormai da tempo nella mia testa e ogni nuova puntata contribuisce a rafforzarlo, nonostante il gran baccano che le parti in causa continuano a fare, il clangore delle spade dei duellanti-fratricidi, i ghigni beffardi degli editori-spettatori, il sussiego attendista di Giovanni Legnini.
Sono stufo e disilluso.
E credo che questo sentimento dovrebbe prevalere tra tutti i colleghi. Assieme alla convinzione che, sì, abbiamo perso un’altra battaglia, ma oltretutto combattendola per una causa diversa da quella che credevamo.