Molti pubblicisti lo invocano come un’ancora di salvezza e lo citano per dire che, a causa sua, l’accesso alla professione giornalistica sarebbe di fatto bloccato. Ma io non capisco: “professionista” mica vuol dire assunzione e stipendio garantito. Anzi…
Oggi, in Italia, per qualificarsi “giornalisti” (e quindi per godere dei benefici poco veri e molto presunti derivanti da tale status) è sufficiente essere iscritti all’albo, elenco pubblicisti. Stessi diritti e stessi doveri dei professionisti. Con la differenza che i secondi, nella vita, di mestiere possono fare solo i giornalisti. Mentre i primi anche altro. E quindi, in sostanza, mantenersi coltivando più attività.
Scusate se è poco.
Vista l’aria che tira e il lavoro che manca, mi pare anzi un grande vantaggio. Considerato anche che, come detto sopra, per essere considerati “giornalisti” il titolo di pubblicista basta e avanza, senza comportare alcuna deminutio capitis.
Non capisco allora la smania generalizzata di tanti colleghi, che emerge ovunque e spesso sfocia in una vera e propria rivendicazione, per il “praticantato”: invocato a ogni piè sospinto, ma spesso a vanvera, come un sacrosanto diritto. E che poi sarebbe la porta di ingresso all’esame di stato per diventare (se promossi, il che a sua volta non è automatico) professionisti.
Tutti insomma a frignare, a blaterare sul fatto che la professione è sostanzialmente inaccessibile e che i requisiti richiesti per ottenere il praticantato (contratto da praticante, praticantato d’ufficio concesso dall’OdG o praticantato freelance se in presenza di un reddito libero professionale pari a quello di un redattore ordinario di prima nomina) sono in sostanza impossibili da raggiungere. Con l’aggiunta che ciò è ingiusto, è anticostituzionale, è un ostacolo alle ambizioni professionali, alla carriera, allo sviluppo della personalità e così via.
Boh, io non capisco. Davvero, non capisco. Proprio non me ne faccio una ragione e probabilmente è colpa mia che non afferro qualcosa.
Ma guardate, cari amici giornalisti, che l’ottenimento del praticantato non equivale alla certezza dell’ottenimento di un posto di lavoro e quindi di uno stipendio garantito. Insomma, non è che diventando praticanti e poi professionisti si accede alla garanzia di un reddito.
Casomai, oggi, è il contrario. Le assunzioni a tempo indeterminato sono sempre più rare e, comunque, il posto fisso (che rappresenta ormai una minoranza, in termini numerici) è sempre meno sicuro e peggio retribuito. La qualifica di professionista obbliga però, viceversa, all’esercizio esclusivo della professione come fonte di reddito. E proprio questo, oggi, con la crisi del mercato che c’è e con la concorrenza spietata che c’è, con i compensi ridicoli che ci sono e con la assoluta mancanza di prospettive di un cambio di tendenza a breve, rappresenta per tutti la vera zavorra. Una gabbia, addirittura, che si traduce spesso nell’impossibilità di mettere insieme il pranzo con la cena se non a costo di cessare del tutto l’attività.
Ecco, detto questo vorrei davvero che qualcuno mi spiegasse se questa aprioristica fame di praticantato che hanno tanti giovani e ormai non più tanto giovani colleghi sia il frutto di qualcosa che grossolanamente mi sfugge, cosa possibilissima, oppure di una gigantesca forma di disinformazione, di un colossale abbaglio collettivo, di una leggenda metropolitana forse pure furbescamente alimentata per fare “movimento” e generare false aspettative in una professione già pletorica e alla deriva come la nostra.
Grazie a chi mi darà una risposta.