C’è chi teme che la stampa tradizionale, nata per informare, verrà spazzata via da un sistema commerciale di notizie-gossip redatte, da legioni di amanuensi a basso costo, “on demand” in base alla selezione di un algoritmo che scandaglia i “generi” più cliccati sulla rete. E se invece fosse il passo definitivo per fare chiarezza e squarciare il velo che ottunde le differenze tra informazione e chiacchiere?
Dopo la sciocchezza dell’isola islandese (vedi qui) consacrata all'”informazione anonima” e quindi, secondo qualcuno, “libera” in quando non corredata di firma in calce (nel senso che l’autore, restando senza nome, non dovrebbe temere ritorsioni dal “potere” e scrivere quindi tutto ciò che sa: peccato però che così facendo si apparigli il giornalismo alla delazione, senza contare l’alluvione di diffamazioni gratuite o pilotate che invaderebbero l’aere), eccone un’altra (qui), forse ancora più ridicola: il “content farming”. Con l’affermarsi di questo modello industriale, che già spopola in Usa, secondo qualcuno le notizie pubblicate dai giornali potrebbero, in un futuro tanto prossimo che è quasi presente, non essere il frutto della selezione e della scelta di una redazione, di un direttore, di un caporedattore, bensì di un algoritmo capace di individuare sulla rete i temi più “cliccati” dalla gente e di commissionare a legioni di “freelance” (sic!) la redazione espressa di instant-articoli sui medesimi temi. Articoli, va da sè, di nessuna qualità, di nessuna affidabilità e quindi anche pagati pochissimo (12 euro l’uno). Robaccia di consumo prodotta per due soldi, insomma. Il coronamento del tante volte evocato processo di “operaizzazione” (o, direi meglio, di cottimizzazione) della professione giornalistica. “Una formidabile sfida – chiosa sul suo blog Paolo Ottolina del Corriere della Sera – economica ma anche culturale al modello dei vecchi media, già abbondantemente in crisi”.
Ma, mi chiedo, ne siamo proprio sicuri? Siamo certi che l’imporsi di questa informazione on demand possa essere chiamata giornalismo o che essa lo sostituirà? E che chi la esercita possa o debba essere chiamato giornalista? Oppure la nascita e l’affermazione di questa non-informazione sarà la ciambella di salvataggio, il discrimine finalmente esplicito che consentirà di separare in modo netto, chiaro, evidente i giornali dai contenitori di chiacchiere, i giornalisti nel vero senso della parola dagli estensori di testi su commissione?
Non è, aggiungo, che proprio grazie a questo evidente contrasto sarà possibile separare definitivamente i prodotti, quindi i relativi mercati e di conseguenza la natura delle rispettive maestranze? In conclusione: non è che proprio per l’asseverarsi di tale manifesta differenza riusciremo finalmente a chiamare giornalisti (obbligandoli a comportarsi da tali) quelli che scrivono per i giornali e a chiamare giornali quelle pubblicazioni scritte dai giornalisti, differenziando l’informazione dall’intrattenimento?
Vedo già il titolo: “Le notizie-spazzatura salvano i giornali e i giornalisti (nonchè il loro stipendio)”.