Secondo la Cgia di Mestre, dice il Corriere (qui), “tra il 2007 e il 2010 le famiglie italiane hanno ridotto i consumi per un importo pari a 17,6 miliardi di euro (dato al netto dell’inflazione)”. In termini percentuali, la contrazione media nazionale è stata del 5,2%, spalmata più o meno equamente sul territorio nazionale. Che sia per forza o per amore: era ora! Speriamo che la resipiscenza verso la sobrietà sia cominciata.
Vabbene, lo dico pubblicamente. Farò outing.
No, niente di pruriginoso. Ma a me questa generalizzata costernazione perché gli italiani “non consumano più” e l’altrettanto generalizzato appello, che arriva in salse varie da tutte le forze politiche, governi compresi (con tanto di spot pro scialacquamento) per il corrispondente “rilancio dei consumi” e per “risollevare l’economia”, proprio non va giù.
Ma da quando “consumare” è una virtù? E perché dovrei, spendendo a vanvera, sostenere industrie e commercianti che producono e vendono oggetti superflui?
A me avevano insegnato che la virtù era, casomai, risparmiare. O, meglio, vivere con oculatezza e sobrietà. Proverbi a parte, lo dimostravano gli esempi quotidiani. Quasi tutti erano sobri. I poveri per necessità, i ricchi per riflessione, gli aristocratici per educazione. Unica e, ahinoi crescente, eccezione erano i nuovi ricchi, ansiosi di ostentare le proprie possibilità economiche e di rimuovere compulsivamente atavici desideri di abbondanza, repressi per generazioni. Ma proprio per questo patetici e oggetto di giusto dileggio.
Tutti gli altri erano infatti relativamente sobri. Il che non voleva dire né tirchi, né sciatti. Semplicemente consapevoli del valore del denaro e dei beni, della loro durevolezza, della loro utilità, della loro non eterna rinnovabilità. Quindi vivevano soddisfacendo i propri bisogni e anche le proprie voglie, talvolta trattenendosi, talvolta esagerando un po’, ma sempre nella ragionevolezza. Lo scialo era un’eccezione e non una regola. La tv si cambiava quando non era più riparabile, non quando ne usciva un modello più grande o dal design (è questo il nuovo oppio degli incolti e dei pertinaci seguaci del cattivo gusto). Il guardaroba si rinfrescava, casomai, comprandosi ogni anno qualche capo alla moda, non gettando a mare il contenuto dell’intero armadio della stagione precedente per rivestirsi da capo e piedi con straccetti da due soldi, tanto per aggiornarsi.
E del mobilio, che dire? Da che mondo è mondo, le case più belle ed eleganti erano (per me, restano) quelle che, attraverso la stratificazione di arredi ereditati dalle precedenti generazioni, dimostravano una non recente abitudine alla qualità dell’“abitare”. Ora va invece l’arredamento usa e getta: cose di scarso valore e qualità, pensate e costruite per durare poco. Cioè per essere ricomprate spesso, in un inarrestabile vortice consumistico. Tipico caso di consumo inutile. E’ il modello Ikea, che va benone per gli oggetti di uso comune e quotidiano, assai meno bene invece per oggetti destinati, in teoria, a durare almeno una vita intera.
Fa specie insomma (e dal un certo punto di vista fa piacere: è il segno di un certo, ancorchè forzato, rinsavimento?) apprendere che, grazie alla crisi (o, mi sforzo di pensare, alla riflessione da questa indotta), negli ultimi anni i consumi degli italiani si sono sensibilmente ridotti.
Tutto ciò manda a gambe all’aria fiorenti industrie del superfluo? Affossa un commercio ipertroficamente cresciuto all’insegna del consumo compulsivo? Mi dispiace per le vittime del crac e per i problemi sociali che ciò comporterà, ma resto convinto che sia il male minore. Il prezzo da pagare per un ritorno collettivo a uno stile di vita ragionevole.
Molto meglio avere nuovi poveri (rectius: gente a cui sembra di essere povera perchè non può comprare al figlio quindicenne il terzo telefonino della sua vita o acquistare alla moglie la terza auto o perchè non può farsi tutti i weekend al mare, compreso l’ingresso-rapina in discoteca il sabato sera) che affogare per l’acefala ottusità dei nuovi ricchi, esponenti della più perniciosa egemonia culturale dei nostri tempi.