Paroll, domà paroll” è il libello di liriche inedite in dialetto milanese (e “italiano” a fronte) che negli anni ’70 il giornalista, viaggiatore e linguista Federico Formignani dedicò alla moglie e alla città. Pubblicate oggi profumano ancora di passione, di gioventù e d’una metropoli scomparsa.

 

Mi fa un certo effetto dover spiegare ai lettori che quello che sto recensendo è il libro di un “collaboratore” di AF, perchè così facendo gli faccio un triplice torto. Lo descrivo in climax: non è un collaboratore, ma una firma; non è un collega, ma un maestro (di professione e non solo); non è un amico, ma un amico carissimo.

La premessa è necessaria a queste note su una raccolta di poesie, arte non popolarissima. Perdipiù in dialetto milanese. Il che basterebbe a rendere il volumetto una lettura in apparenza ostica, anzi osticissima, oltretutto per uno di consolidata toscana favella come me (e non solo), velando le mie parole di elogio col sospetto dell’accondiscendenza.

Un’apparenza però ingannevole, come spiegherò dopo. Ma di cui l’autore, uomo di acuta sensibilità, è ridancianamente consapevole. Al punto che penso non ci sia migliore presentazione di quella che egli stesso, con sintesi feroce quanto efficace, ha vergato per il risvolto di copertina. E che, per la sua lucidità, riporto integralmente.

Se è vero quello che pensano e dicono molte persone (“scrivere non è lavorare“), cado nello sconforto più nero all’idea che scrivere poesie sia ancora peggio, perchè è un lavoro due volte inutile anche per la conseguente perdita di tempo impiegata nel pensarle! Ma così è stato e non ci posso fare nulla. Dopo una vita spesa a leggere milioni di parole scritte da altri e avere a mia volta contribuito con tenacia ad aumentarne il volume complessivo, sono approdato alla decisione di ficcare il naso tra le vecchie carte che quasi tutti conservano e ho ridato vita a parole antiche e per lunghi anni dimenticate. Molte sono parole egoiste, poichè dedicate tutte a un’unica (in tutti i sensi) persona a me cara. Ma sono anche parole universali, in quanto è la città, con i suoi lati belli e meno belli, ad essere protagonista. Diciamo che, alla fine, il non-lavoro dello scrivere è una malattia con la quale convivo serenamente“.

C’è poi un’altra apparenza, non secondaria.

Parlare di raccolta di poesie è corretto ma un po’ fuorviante, perchè l’espressione evoca l’idea, decisamente poco seducente, di uno zibaldone di liriche disperse nel tempo e nell’oggetto, di argomento vario e di ispirazione spargola. Sostanzalmente, lo spettro di una noia mortale.

Questo libretto è invece tutto il contrario: è un condensato di versi scritti nell’arco di un solo decennio (gli anni ’70: quasi cinquant’anni fa!) e dedicati a una sola persona, Cate, la donna della vita (non solo la moglie) di Federico Formignani. E a una sola città, Milano, di cui Formignani, nato sotto la Madonnina da famiglia di origini ferraresi, ha non solo assimilato l’idioma, ma è diventato cultore, studioso ed esegeta nel corso di una lunga carriera giornalistica. E sono comunque, in entrambi i casi, versi d’amore, pulsanti, raffinati, cesellati, a cui la lunga sedimentazione in un cassetto non ha tolto nè freschezza, nè spirito. Ma a cui anzi, come a certi affreschi rimasti sepolti in cripte buie, dimenticati e poi riportati per caso alla luce, la raggiunta visibilità dona ora una vividezza inaspettata e un’efficacia pungente, a volte quasi fotografica.

E’ vero: sono in dialetto meneghino. Ma hanno il testo italiano “a fronte”, al pari di certe opere antiche o di certi traduttori della nostra adolescenza, elementi ambedue latori di qualche nostalgia letteraria e indispensabili per cogliere ciò che la lezione in slang meneghino rende opaco.

Anche perchè l’autore le accompagna con una godibile gramateghetta de scorsa (una “grammatichetta di corsa“) che è in sostanza un Bignami di grammatica e di pronuncia dialettale, strumento utilissimo che consente al lettore il divertente esercizio della comparazione.

Detto questo, basterà scorrere i versi per rilevarne l’intensità del sentimento e la genuinità dell’ispirazione, che però dal lato amoroso non indulgono in stucchevolezze e non inciampano nello zucchero (“odore d’inchiostro, di benzina, di miele, odore di te“), mentre da quello cittadino tradiscono costantemente lo spirito di osservazione del giornalista e la sensibilità del viaggiatore (“acqua morta, senza pesci” è quella del Naviglio di allora), la percezione tattile della vita reale che riconosciamo in Federico.

Insomma, non mi sono annoiato a scorrere le cento paginette di questo “Paroll, domà paroll” che poi vuol dire, come l’autore ci spiega, “Parole, solo parole“. Naturalmente è pura suggestione se il titolo ci riporta a quella “Parole, parole, parole” di Mina e Alberto Lupo che ben richiama il bianco e nero del decennio – ora formidabile, ora un po’ abrasivo e un po’ odoroso, che furono i Settanta. E che Federico Formignani, dopo averli vissuti intensamente, ci ripropone ora con la coesa levità e la scusa – un cortocircuito, a pensarci bene – della callida poesia dialettale.

Resta da rispondere alla provocazione che, con britannico understatement, l’autore ci lancia nella prefazione: se “scrivere non è lavoraree il non-lavoro è una malattia con cui si convive serenamente, che dire di quella che sembra la più superflua delle scritture, ossia la lirica? Un autentico contrappasso, in fondo, nella – per definizione – più operosa delle città italiane, Milano: “…Poeou, a la fin, se Dio voeur / se timbra el cartellin” (“…Poi, alla fine, se Dio vuole / si timbra il cartellino”, da “Pendolar/Pendolari”).

 

Paroll, domà paroll” (Milano Meravigliosa Editore, 15 euro)