Le marchette sono le dita nel naso del giornalista, gli inciuci ne sono il rutto, le scorrettezze tra colleghi ne sono la bestemmia. Ma l’etica professionale è come l’educazione, si impara da giovani. Se qualcuno te la insegna, però.
Ieri sera si parlava tra colleghi e a un certo punto il discorso è caduto sulla deontologia.
La deontologia del resto è un magnifico argomento di conversazione, in cui ognuno può portare esempi ed aneddoti stupefacenti. Sempre frutto della meschinità altrui, va da sè. Ottimo tema anche per la stesura di articolesse moraleggianti, di j’accuse impietosi contro i malcostumi della professione, le sue degenerazioni, i suoi “ai miei tempi”.
Naturalmente, in ogni settore, la deontologia si evoca spesso e la si pratica molto meno.
Intendiamoci, non è il caso di autofustigarsi troppo: siamo umani e certe norme di comportamento sono molto elastiche.
E, a pensarci bene, nel giornalismo le cose non funzionano troppo diversamente che nella vita.
Voglio dire: che anche nel nostro mestiere imperversino bassezze, furberie, scorrettezze, strabismi comportamentali è cosa tanto ovvia da essere data per assodata.
Meno ovvio, però, è capire quanto ciò sia il frutto di una consapevole malizia e quanto, invece, frutto di cattivi esempi, di cattivi maestri. E addirittura di maestri assenti.
Ci pensavo ieri sera quando, a ragione, tutti si lamentavano dello scarso rispetto della deontologia professionale nel nostro mestiere.
Già, mi sono chiesto (e ho detto): ma i giornalisti la deontologia dove la imparano? O meglio, chi gliela insegna?
Ai professionisti in teoria gliela insegnano i manuali che devono studiare per dare l’esame di stato. Il problema è che all’esame ci arrivano dopo diciotto mesi di praticantato in redazione o dopo tre anni di praticantato freelance o dopo la scuola di giornalismo. Ora, le redazioni sono proprio laddove il mancato rispetto della deontologia trova la concreta sua applicazione e propagazione, quindi non il massimo come luogo per imparare, visto che i “vecchi” e severi colleghi che burberamente ti insegnano come ci si comporta non ci sono più, sostituiti da successori troppo maleducati, troppo distratti o troppo furbi per perdere tempo a fare formazione morale ai neofiti. Alle scuole di giornalismo la deontologia (forse) si predica, ma di sicuro non c’è modo di applicarla concretamente. E i freelance vengono dalla strada, dal “pubblicismo” e lì i maestri non ci sono di sicuro. Eppure, in quanto giornalisti a tutti gli effetti, anche i pubblicisti sarebbero tenuti al rispetto scrupoloso dei principi deontologici della professione.
Ed eccoci al punto: ma ai pubblicisti la deontologia chi gliela insegna? Chi gliela spiega? Dov’è il babbo-Ordine che dà all’aspirante giornalista uno scappellotto se lui si mette le dita-marchetta nel naso?
Voglio dire che in sostanza, oltre a essere mandati allo sbaraglio sotto il profilo della consapevolezza professionale, sindacale e istituzionale, i neopubblicisti lo sono anche sotto il profilo dell’etica giornalistica.
Non è colpa loro: nessuno nasce “imparato”.
Ma se già posso diventare giornalista (o meglio avere il famoso “tesserino“, perchè da qui a essere un giornalista ce ne corre) presentando una sessantina di articoletti pagati nulla o quasi nell’arco di un biennio, una volta ottenuta l’agognata iscrizione all’Albo, che ne so di deontologia? Zero.
Le commissioni degli ordini regionali che esaminano le pratiche per le nuove iscrizioni, oltre spesso a non entrare nel merito della qualità (male!) degli scritti e nemmeno in quello della congruità del pagamento dei medesimi (malissimo!), sono mai entrati nel merito dei contenuti? Hanno cioè mai verificato, anche a campione, se, cosa di solito evidentissima, certi articoli presentati dai candidati siano pubblicità camuffate, leccate al politico di turno, sviolinate al prodotto x o al personaggio y, insomma marchette?
Credo di poterlo affermare con certezza: mai. Se qualcuno può smentirmi, lo faccia.
No perchè, ad esempio, per un aspirante giornalista, vedersi respingere la domanda in quanto anche due pezzi su sessanta sono inammissibili in quanto frutto di commistione tra informazione e pubblicità, sarebbe oltremodo formativo. Una lezione che non dimenticherebbe più. E che in seguito, magari divenuto professionista, o caposervizio o direttore, sarebbe capace di trasmettere ai più giovani colleghi o aspiranti tali. O magari, nel momento in cui chiede loro di chiudere un occhio, sarebbe consapevole di farlo violando certi principi.
Insomma, le buone maniere, anche professionali, si imparano da piccoli. Quando qualcuno te le insegna e te le fa rispettare.
Se il genitore abdica in partenza a questa funzione, poi non ci si deve lamentare se la società si riempie di cafoni, ladri e malfattori. Così, allo stesso modo, se l’Ordine abdica al suo ruolo di istitutore, poi non bisogna lamentarsi se le redazioni si riempiono di giornalisti “disinvolti” e le pagine dei giornali di palesi violazioni della deontologia.
Forse sarebbe il caso di parlarne quando ci si addentra nelle questioni ordinistiche.
Manovre, cordate e campagne elettorali incluse.