La furia “liberalizzatrice” di Monti si abbatte sugli 80mila pubblicisti italiani, che da agosto rischiano di ritrovarsi professionalmente apolidi. Il problema? Insieme a tanti dopolavoristi la categoria è piena di ottimi giornalisti, piovuti lì per effetto del “giornalistificio” creato dall’Ordine. E domani che succederà nell’informazione?
Che strano paese, l’Italia. Un paese in cui, ad esempio, da un giorno all’altro l’acqua diventa potabile per decreto, innalzandosi ex lege le soglie minime di potabilità. E dove allo stesso modo si pensa ora (vedi qui) di risolvere la crisi di una professione, quella giornalistica, abolendone in un colpo solo la branca più popolosa e negletta: quella dei pubblicisti. Vale a dire 80mila dei 110mila iscritti all’albo.
Con quali concreti benefici, è un mistero che solo il premier potrebbe, se volesse, spiegarci. Ma, si sa, ogni stagione ha le sue demagogie e le sue paroline magiche. E quella che va di moda adesso è “liberalizzare”. Così il popolo bue è contento e, pur senza capire, accetta più docilmente di farsi spremere, sollevato dall’illusione di aver abbattuto chissà quale “casta”
Sia chiaro: i pubblicisti, ovvero quei giornalisti che, ai sensi della legge 69 del 1963, svolgono attività non occasionale e retribuita anche se contestualmente ad altre professioni o impieghi, erano da tempo divenuti un bubbone, un’escrescenza abnorme, un calderone residuale nel quale avevano finito, per caduta, col ritrovarsi tutti, dai liberi professionisti ai cacciatori di tartine, dai precari agli abusivi, dai disoccupati agli aspiranti. Insomma una massa di soggetti più o meno disperati.
Ma non certo per colpa loro. Bensì per l’effetto di un fenomeno perverso e combinato che io ho chiamato “giornalistificio”: da un lato la moltiplicazione dei media e quindi dei luoghi di esercizio della professione, dall’altro la cronica mancanza della volontà politica di riformare una legge professionale divenuta, in quasi cinquant’anni, lontana anni luce dalla realtà. Un sistema che, grazie a omesse applicazioni e a interpretazioni furbesche delle norme, sul versante dei pubblicisti aveva di fatto già liberalizzato, rendendolo irrisorio, l’accesso alla professione. Risultato? La moltiplicazione in progressione geometrica di “giornalisti” di nome, spesso privi di professionalità, preparazione, orientamento e reddito, buttati allo sbaraglio nel mercato saturo di un lavoro che non conoscono e, quindi, preda predestinata di illusioni e di editori senza scrupoli. Al loro fianco, tanti ottimi e navigati colleghi impossibilitati però, per la carenza di reddito aggravata dalla crisi del settore, ad accedere all’esame di stato per diventare professionisti.
Gli effetti di questa subdola fase di operaizzazione del giornalismo sono sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di commenti.
Ora, però, arriva la “manovra Monti”. E, in base all’art. 33 della medesima, se non cambia qualcosa nel frattempo, a partire dal 13 agosto 2012 la categoria dei pubblicisti sarà ufficialmente abolita.
Che fine, professionalmente parlando, faranno gli 80mila colleghi, non è dato sapere. Qualcuno propone di relegarli in un albo “ad esaurimento”, come i Cavalieri di Vittorio Veneto, ma senza medaglie al merito.
I diretti interessati (o meglio, chi all’OdG formalmente li rappresenta) ovviamente alzano le barricate e difendono anche le poltrone, i privilegi, le diarie e le indennità di un fortino in un tutta onestà non sempre difendibile. Tanto da indurre un commentatore (qui) a parlare di “Ordine prigioniero dei pubblicisti”.
Beh, contrariamente ad altri colleghi ho preferito pensarci bene prima di affrontare l’argomento, che mi pare assai più complesso e spinoso di quanto sembri.
E non mi sono unito al coro di chi per istinto, e forse un po’ superficialmente, ha gioito per questa paventata abolizione dicendo che finalmente non si ritroverà più accanto, nel mestiere, a dopolavoristi e signore bene.
Mi pare una posizione, sebbene comprensibile, miope e ingenerosa, ma soprattutto un po’ avventata, priva degli scrupoli che ci si dovrebbero fare quando si prendono decisioni destinate a incidere pesantemente sulla vita e sul futuro lavorativo delle persone.
Preferisco invece farmi e porre ai lettori alcune domande.
La prima è: che quadro si prospetta per l’esercizio della professione?
Supponiamo che gli 80mila pubblicisti rimangano tali, in attesa di “esaurimento”. Si troveranno in concorrenza con chi? L’informazione, per come è strutturato oggi il mondo editoriale (e anche a prescindere dagli enormi problemi legati al compenso del lavoro giornalistico, vedi la “Carta di Firenze”), non può fare a meno dei pubblicisti, intendendo per tali tutti coloro che lavorano fuori dalle redazioni. Ne consegue che la liberalizzazione, trasformando chiunque in pubblicista di fatto, moltiplicherà ulteriormente la categoria dei “collaboratori”, stavolta però senza titolo professionale? Con quali conseguenze economiche e occupazionali, visto che già oggi la categoria aveva l’acqua alla gola?
Seconda domanda: con l’allargamento della base dei collaboratori esterni “senza tesserino” (quindi sottopagati o non pagati) e con il parallelo asciugamento delle redazioni a causa della crisi, chi mai in futuro potrà aspirare a diventare “giornalista” iscritto all’albo, visto che per questo la legge prevede il praticantato e/o l’assunzione e/o un reddito da attività professionale almeno uguale a quello di un redattore ordinario? Andiamo verso un OdG destinato a sua volta all’esaurimento o allo svuotamento?
Terza domanda: o forse, fatta la legge, si trova l’inganno? E, mutando le norme di accesso (o, più facilmente, la loro concreta applicazione: possibilità di sostenere l’esame e difficoltà del medesimo), si ripeterà coi professionisti quanto a suo tempo accaduto per i pubblicisti, cioè si agevolerà in ogni modo il travaso dall’una all’altra categoria, così da ricreare la massa critica professionale?
Quarta domanda: a cosa davvero mira tutto ciò? Forse a indebolire le fonti di entrata delle floride casse professionali (Inpgi e Inpgi2) e a renderne meno indolore il da tempo ambito assorbimento nell’Inps?
Quinta domanda: ma non era meglio, più giusto, più semplice fare una reale riforma dell’ordinamento, adeguandolo ai tempi e ridisegnando una professione, la necessità di una fisionomia della quale è ormai percepita come necessaria (vedi qui) perfino nei paesi in cui non esiste un Ordine dei Giornalisti?
Sarebbe bello se qualcuno – si chiami Monti, Parlamento, OdG, Fnsi – provasse a rispondere.
E i lettori di questo blog che ne pensano?