di URANO CUPISTI
Ultima puntata dai taccuini del viaggio al Polo Sud: il bagno nelle acque calde all’interno di un vulcano attivo, tra pinguini e balene, il villaggio fantasma dei balenieri e un ritorno via Canale Drake che nemmeno il Russel Crowe di Master & Commander.

 

Sera di sabato 15 gennaio 2005: “Direzione Nord verso le Isole Shetland del Sud per raggiungere Hannah Point e Deception Island. Caldere navigabili, vulcani ancora attivi, resti spettrali di quella che fu l’industria dei balenieri”.
Navigammo ancora tra piccoli iceberg  “arrotondati” per l’effetto capovolgimento dovuto alle maree. Navigammo tutta la notte (si fa per dire).
Al mattino furono nuovamente i rumori ferrosi delle ancore a dare la sveglia.
Un buongiorno luminoso di straordinaria nitidezza e splendore: avevamo raggiunto Hannah Point, nelle Shetland del Sud, una vera oasi antartica. Un paesaggio fantastico con promontori di basalto e vette innevate.
Hanna Point prende il nome da una nave britannica, Hannah, naufragata da quelle parti all’inizio del XIX secolo. Ci trovavamo precisamente a ridosso dell’isola di Livingston.
Con i tre zodiac di bordo scendemmo a terra tra colonie di pinguini di gentoo e macherones, tra gabbiani di fuoco, procellarie giganti e cormorani dagli occhi azzurri. Sulla spiaggia di origine vulcanica distesa di foche antartiche ed elefanti marini meridionali.
Uno degli aspetti spettacolari, diverso e importantissimo, fu l’individuare la presenza di entrambe le specie di piante da fiore dell’Antartico: il Colobanthus quitensis e la Deschampsia antartica. Le osservammo lungo i sentieri al termine della spiaggia. Quel senso dell’incredibile: trovare la flora a quelle latitudini.
Ma ad attirare la nostra attenzione fu l’improvvisato briefing condotto da John Dyson, lo storico, che ci raccontò circa le attività umane da quelle parti: “Le Shetland del Sud furono pesantemente esplorate e utilizzate dai primi cacciatori di foche e di balene”. La necessità di olio per illuminare le città era pressante e quindi “necessario” abbattere balene, foche, elefanti marini e, a volte, anche i pinguini per ottenere la materia prima.
Appena l’ultimo dei tre zodiac ebbe lasciato la spiaggia due grandi sbuffate al centro della baia ci costrinsero a fermare la corsa verso la Pola Star. Fermi, immobili, in silenzio, assistemmo ai giochi di due grandissime balene. Essere partecipi di quello spettacolo così avvincente ci emozionò e capimmo in quell’istante cosa significasse preservare quel White Land of Silence.
La Polar Star, dopo pranzo, riprese la navigazione tornando sui propri passi, diretta verso sud.
Lasciammo alle spalle l’isola di Livingston, la Hannah Point, le innumerevoli colonie viventi. Stavamo per vivere una delle avventure più emozionanti dell’intero viaggio: navigare all’interno di un vulcano attivo, fare il bagno nelle sue calde acque e visitare uno dei luoghi più spettrali al mondo. Quello di un villaggio norvegese di balenieri abbandonato, arrugginito.
Entrammo nel cratere della Deception Island.
Nathaniel Palmer, esploratore americano, la chiamò così perché la ritenne un’isola normale, quando invece si rivelò come una caldera allagata.
A forma di ferro di cavallo con un’entrata chiamata “Mantici di Nettuno”. La caldera misura circa 12 km di diametro con una picco alto circa 550 mt.
Davanti a noi uno scenario molto diverso da quello visto nei giorni precedenti, con meno ghiacciai e con il suolo ricoperto da residui vulcanici.
Lo sbarco con gli zodiac avvenne nella Whaler’s Bay (la baia del baleniere), dove sorgono le rovine di una stazione norvegese per la lavorazione delle balene, foche, leoni marini e pinguini.
L’eruzione del 1967 è stata ritenuta dall’opinione pubblica mondiale come “benefica” perché aveva messo fine ad uno scempio: la distruzione di quella stazione norvegese, meglio dire paesotto di balenieri con tanto di cinema, chiesa luterana e cimitero, che aveva portato quasi all’estinzione di alcune specie di foche australi e leoni marini. Assistemmo ad una specie di rivincita.
Foche, pinguini e tanta fauna antartica che si aggiravano tranquillamente e senza paura tra resti di serbatoi arrugginiti usati per lo stoccaggio del grasso, bollitori e macchinari infernali, carcasse ossee di cetacei, croci cimiteriali.
È bene ricordare che oggi sofisticate navi baleniere, in particolare giapponesi, compiono le stesse operazioni a bordo, non lasciando alcuna traccia della mattanza.
Un bagno rigenerante nelle acque calde di Deception Island pose fine alla nostra avventura in terra antartica.
La Polar Star fece un ulteriore giro nella caldera e mostrò, nei pressi dei “Mantici di Nettuno”, la dritta guardando verso prora ad un’altra nave oceanografica con a bordo altra spedizione antartica: la m/n Prof. Molchanov, pressappoco delle dimensioni della nostra nave. Fischi, saluti, agitazioni di mani come dire: avanti tocca a voi, foche e pinguini vi attendono per quelli che oggi chiamiamo selfie.
È il capitano Endresen che vi parla. Meglio cenare presto, munirsi di transcoop (il cerottino miracoloso, ndr) e raggiungere le cabine: il Canal Drake ci attende e, dalle previsioni, un po’ più minaccioso che all’andata”. Inutile dire che furono quarantottore d’inferno, altro che Master & Commander di Russel Crowe.
Ci sono branchi di balene!” All’annuncio degli ufficiali di coperta rispondemmo in pochi. Gli altri se ne stavano legati alle proprie cuccette.
Al mattino di mercoledì 19 gennaio la Polar Star imboccò il Canal Beagle. La quiete dopo la tempesta. Piano piano tutti i componenti la spedizione guadagnarono la sala per colazione. Eravamo ai saluti in tutte le lingue. Di li a poco il molo di Ushuaia ci avrebbe disperso.