Con questo post vorrei rivolgere l’ennesimo, cordiale saluto alle tante vestali incondizionate del mostro digitale.
Conosco infatti a decine, anzi a centinaia, persone che vanno in sollucchero al solo menzionare la digitalità: internet, computer, dematerializzazione. Per costoro il digitale è una panacea universale, una divinità da venerare, un latore di orgasmi e un sinonimo di infinito, luminoso progresso. “Via le scartoffie!”, tuonano trionfanti. E si beano al frusciare degli hard disk.
Sotto certi aspetti non hanno torto, perchè i vantaggi portati dalla tecnologia dell’impalpabilità sono evidenti.
Ma dimenticano una cosa: che nessuna rivoluzione, nemmeno quella digitale, potrà mai sconfiggere il leviatano della burocrazia.
Con, oltretutto, una differenza peggiorativa fondamentale rispetto al passato. Ovvero che, alla carta, poteva almeno accedere fisicamente chiunque, pur magari dopo attese a volte bibliche e un’orgia di timbri. Ma ai malefici bite annidati dietro al monitor di un computer come si accede, se qualcosa s’inceppa?
Sentite questa, ad esempio.
Ormai quasi tutti (imprese, professionisti, etc) sono obbligati ad avere la pec, la posta elettronica certificata, che serve a scambiare corrispondenza e documenti con valore di raccomandata, in tempo reale, con autorità e enti pubblici.
Comoda, no? Niente code alla posta, niente bolli da leccare nè moduli da riempire.
E siccome la tastiera di un pc ormai la sanno usare quasi tutti, il “grande passo” sembra compiuto.
Poveri illusi.
Tu scrivi all’Inps o alla regione e loro ti rispondono (fin qui tutto ok), ma con un sistema di firme “autenticate”: bisogna tutelarsi, spiegano, dai burocrati senza volto, no? Scusate la scarsa tecnicità delle mie espressioni: sto cercando di dire che, il linea di principio correttamente, il sistema mi vuole garantire che il documento che mi viene inviato è realmente attribuibile al mittente, il quale di solito è il responsabile del procedimento o comunque il funzionario che sovraintende all’operazione.
In pratica, quindi, per conoscere la risposta del digiburocrate dovrebbe bastare aprire la casella di pec, verificare la posta in arrivo, aprire l’email che ci interessa, scaricare l’allegato, leggerlo e prendere atto di cosa c’è scritto. Se proprio si è trogloditi e retrogadi come me, fregandosi dell’avviso “salva l’ambiente, pensaci prima di stamparmi” pedantemente recitato in calce al foglio virtuale, stamparlo pure e fine delle trasmissioni.
Già, facile a dirsi.
Oggi ho ricevuto un’importante richiesta di documenti da parte di un primario ente finanziario statale. Ballano soldi e loro, prima di darmeli, vogliono essere certi che io sia in regola.
Giusto, no?
Bene. Apro e non succede nulla. C’è insomma un’infinita serie di allegati apparentemente inutili e dai nomi incomprensibili tra i quali alla fine ne noto uno in pdf. Dev’essere quello giusto. Clicco per scaricarlo e lui viene scaricato. Riclicco per aprirlo e lui non si apre. Clicco nuovamente e nisba. Riscarico da capo, riprovo, ma nulla da fare. Le tento tutte: mi reinoltro l’email alla mia casella di posta normale, salvo l’allegato in mille modi diversi, tento di forzarlo usando altri programmi, tutto inutile. Ogni volta compare un irritante pop up che dice che è impossibile aprire il documento o che esso è “corrotto” (trattandosi di burocrazia non stenterei a crederlo, ma mi trattengo da facili pensieri).
Dopo un’ora di tentativi, varie colorite smadonnature e copiose autoaccuse di imbecillità, alzo il fatidico telefono e chiamo chi di queste cose spero sia più esperto di me: il commercialista.
La sua sentenza, dopo consultazione con il tecnico dal quale egli stesso è costretto a farsi affiancare, è lapidaria: sì, siccome si tratta di documenti a firma digitale, per aprirli ci vuole lo speciale programma menzionato, in burocratichese e in caratteri ovviamente microscopici, nel corpo dell’email. Alla faccia della semplificazione.
Dannazione: lo cerco, lo scarico, lo installo.
Problema risolto? Sieeee…
L’uso del programma è più complicato di quello di atterraggio delle sonde spaziali su Marte. Tutto in diginglese con funzioni indecrittabili. Un’altra oretta sprecata.
Sempre più ardente d’ansia sul contenuto dell’email e schiumante d’ira per le due ore già perdute, che nemmeno fossimo al catasto vecchia maniera, rinuncio e mi devo raccomandare al solito commercialista affinchè provveda lui a forzare la cassaforte virtuale e mi invii il riservatissimo e teoricamente personalissimo documento che la pubblica amministrazione ha messo, nel mio interesse si capisce, sotto una serratura digitale così inviolabile che neppure il detentore della chiave stessa, cioè io, può farla girare nella toppa.
Ecco, ora ammetto di non essere un lampo in informatica, ma uso il computer quotidianamente da trent’anni, me la sbrigo ragionevolmente bene nelle cose semplici, gestisco posta e software vari con disinvoltura e faccio un lavoro che comunque mi costringe ad essere abbastanza evoluto rispetto all’uso medio che la gente media fa dell’informatica media.
Eppure in mezzo pomeriggio non sono stato capace di accedere a un importante documento personale inviatomi dalla pubblica amministrazione con il mezzo che essa stessa – per celerità, trasparenza e dematerializzazione – obbliga tutti ad usare. Naturalmente senza che ci sia neppure uno straccio di numero di telefono più o meno verde o di istruzioni a cui fare riferimento se qualcosa va storto.
Al posto mio che dovrebbe fare un pensionato, un manovale poco avvezzo ai pc, un agricoltore di mezz’età appena sceso dal trattore o uno dei cinquantacinque milioni di italiani che ignorano l’esistenza di un formato “p7m”?