di BEPPE LO RUSSO
“…con buona pace dei professionisti della scrittura, anche i prodotti che continuiamo a pensare culturali sono merce da vendere. Per conquistare il cliente te lo devi fare complice, confondendo i ruoli fra venditore e acquirente, e convincerlo che quello che gli stai vendendo è lui a volerlo”.
Chi mi legge compatirà l’abuso che qui farò del più odioso dei pronomi: io.
Che dire? La mia è un’età in cui, se è possibile silenziare con pratiche e attività varie i sintomi dolorosi della malattia, rimane impossibile eliminarne le cause. La malattia è l’esistenza, o dovrei dire la resistenza in vita, la sopravvivenza, id est invecchiamento, o ancora meglio la sopravvivenza a se stessi; e questa è la vera indecenza, come qualcuno ebbe a definirla prima di me.
Ostinato per natura a respingere ogni consolazione all’insensatezza della vita, che siano religioni, filosofie, ideologie e varie pratiche meditative, convinto che non ci sono risposte alle grandi domande, duro costantemente in casa per decreto, e per puro divertito diletto spio, faccio il guardone in rete.
Certo, lo sappiamo, nata col democratico intento di metterci in comunicazione con l’intero mondo senza intermediazioni, viviamo tutti con la mediazione della rete, siamo tutti online, interconnessi e colonizzati. Nell’Infosfera, ci dicono fior di studiosi, non siamo/non contiamo più (un cazzo) come individui, ma siamo “profilati” in categorie merceologiche a servizio del mercato globale.
Dalle pagine sponsorizzate i persuasori mostrano di rispecchiare nelle loro offerte solo ciò che siamo, ciò che vogliamo, per indurci a comprare quello che vogliono venderci.
La rete è organizzata come una macchina globale di manipolazione del consenso, non solo all’acquisto di beni materiali ma anche, e più pericolosamente, del consenso a scelte politiche funzionali agli interessi imperanti dell’economia e della finanza.
Ma dico io, già debilitato per essere messo in eterna attesa “per la priorità acquisita”, a me, reduce del Sessantotto, cosa mai può riservarmi la rete?
Io che non nutro alcun interesse a fare del turismo in Croazia per l’impianto di un’economica corona dentale, che non ho curiosità di sapere se corro, o soltanto cammino con le scarpe giuste e che apprezzerei ancora (e mi basterebbe), che uno sconosciuto incontrato per strada mi avvisasse in tempo a non pestare una merda. Lasciando volentieri alle donne over 50 la guida ai migliori tagli di capelli e a chi conosce il cinese mandarino il canale 歡迎訂閱嘟嘟的頻道哦 che suggerisce di seguire 八路軍花姑娘淪為日軍俘虜,沒想到日軍士兵個個饑渴難耐,花姑娘當場就被3個士兵按倒在地, a me che non voglio sapere cosa mangiare (o non mangiare) per non perdere i capelli o come sfiatare un calorifero senza la valvola di sfogo o la soluzione definitiva per eliminare la muffa sui muri o un rimedio efficace per svitare le viti spanate o, ancora, il trucco per far tornare bianchi i capi ingialliti in lavatrice, la rete, ecco, mi permette di scrivere qui il cazzo che mi passa per la testa.
Fare come fanno tutti? Giovani, anziani, sindaci e parroci di provincia, politici di quarta fila e fan di quelli di prima? Quelli che si piazzano davanti a una videocamera, i giovani con lo sfondo dei pensili di cucina, e gli altri, asseconda del ruolo, nel tinello con alle spalle vecchie enciclopedie scolastiche, monologando su tutto urbi et orbi? No, non io.
Potrei farmi passare allora per un professionista, aprendo un blog personale, un canale su YouTube, una pagina sponsorizzata su Facebook e poi usare Instagram, cinguettare su Twitter e altro ancora.
Ma io, ancora io, che per più di mezzo secolo ho frequentato con curiosa felicitas la scrittura, per lavoro e per passione personale, no, non potrei farlo. E allora? Vediamo, voi che dite? Forse potrebbe giovarmi seguire i consigli di un guru, con turbante e lunga barba bianca, per come smettere alla fine di pensare troppo e scoprire, alla buonora, il mio scopo nella vita in meno di cinque minuti, o guarire di qualche male incurabile respirando profondamente. E se poi le parole, i termini, che una volta mi veniva facile da dire e per dire, nel naturale declino cognitivo mi stanno abbandonando, potrei sempre affidarmi alla guida di una delle tante scuole di scrittura online; mi basterebbe, chessò, digitare www.Scrxx, un editor online che ti accompagna mentre provi a scrivere – oops, a digitare – comunque non sai cosa e come, proponendoti gratuitamente le idee, le parole e le frasi in maniera istantanea. Un editor che mi farebbe muovere rapidamente fra sinonimie, rimari, campi semantici, immagini, metafore, metonimie, suggerendomi l’uso appropriato di tutte le viziose maniere di una reggia oratoria barocca. E, beninteso, garantendomi sempre un alto livello letterario.
Potrei anche frequentare una qualche forma di manuale di conversazione digitale, dove l’informazione, una volta frutto di conoscenza, competenza, memoria e dunque esperienza e cultura, diventa prodotto da vendere, fatto di confezione e comunicazione/propaganda (storytelling) conformati a idee e tendenze virali, “memetiche”, proprie dello streaming in quel market place globale che è la rete.
Potrei sfruttare così tecniche di scrittura creativa, cercando un collegamento emotivo, empatia e coinvolgimento tra me e chi mi legge. Come penso di star facendo.
Una scrittura colloquiale, che chiami sempre in causa il lettore con formule del tipo: perché, ascolta; se capisci cosa voglio dire; metti che tu volessi; e poi è chiaro anche a te…e simili. Perché il lettore va messo a proprio agio senza che ci siano sacerdoti di mezzo a rompere i coglioni, e così magari, all’interno di un periodare elegante – perché s’è capito, io vengo dal classico – parlando del libro della Poetica di Aristotele, potrei usare anche frasi forti, comuni, come: è un vero e proprio cesso; questa è una bella cazzata che mi ha rotto i coglioni; che non si capisce un’emerita fava e…mandare tutto in mona! Espressione quest’ultima assai pregevole, perché alla volgarità unisce, come ulteriore rafforzativo, il dialetto. Che ne dite, non è affascinante, eh?
Del resto è questa la scrittura moderna che viene/va incentivata, perché anche per la letteratura oggi valgono, tornano buone, le idee promozionali del marketing, o del neuromarketing. Il successo delle grandi aziende multinazionali che lavorano online, dovrebbero averci insegnato la differenza fra un prodotto che vende e uno che resta sugli scaffali. Quello che si vende – vale ancora dirlo? – è determinato dal gradimento del mercato e, con buona pace dei professionisti della scrittura, lo stesso concetto è valido anche per i prodotti che continuiamo a pensare come culturali e che sono invece merce da vendere, servizi da offrire al più vasto pubblico. Così per conquistarti il cliente te lo devi fare complice/amico, confondendo i ruoli fra venditore e acquirente, e convincerlo che quello che gli stai vendendo è lui a volerlo. Su, fa’ un’offerta, fai tu il prezzo! Ma qui è il problema. Non ho niente da vendere.