L’irrituale idea del governo di “dare terra” a chi fa il terzo figlio sta sollevando commenti a volte più stupidi di quanto la proposta non sia già di per sè bizzarra. Anche se meno bizzarra di quanto può apparire, visto che il caso ha antichi e recenti, illustri e meno illustri precedenti.
Perchè il punto non sono i figli, nè quanti, nè chi li genera o come – dettagli sui quali la miope stampa si è puntualmente soffermata – ma la terra.
E siccome di terra, ossia di agricoltura, non capisce quasi più nulla nessuno, le amenità si sprecano. Con esse le strumentalizzazioni, i malintesi, gli strasbismi.
Si parla così di “terra incolta” di proprietà demaniale.
Ma che vuol dire?
Si pensa forse (temo di sì) che la terra sia incolta semplicemente perchè nessuno la coltiva?
E perchè nessuno si chiede come mai è o è diventata incolta?
E dove si trova, questa terra? Come se un posto valesse l’altro e un suolo valesse un altro.
E a nessuno viene il dubbio, qualora fosse coltivata, che questa terra possa non diventare redditizia, visto che si presume data per essere un aiuto, e non una zavorra, alla famiglia prolifica?
E nessuno domanda, sempre ammesso che possa essere in teoria redditizia, chi e come si garantisce che il beneficiario abbia le capacità tecniche e imprenditoriali per renderla concretamente redditizia? Perchè fra il dire o il sognare e il fare, ce ne corre…
Fatemi capire, poi: l’agricoltura arranca in tutto il paese, gli agricoltori falliscono, a volte si suicidano, sono sempre più vecchi per mancanza di ricambio generazionale, il settore affoga nell’euroburocrazia, da ogni parte si levano lamenti, la gente scappa, terreni fino a ieri coltivati diventano abbandonati, la popolazione e l’occupazione rurali precipitano e qui si pensa di dare sollievo o incentivo ai bisognosi di città semplicemente offrendogli in concessione (nemmeno in proprietà quindi, attenzione!) pezzi di terreno marginale che, se è abbandonato, lo sarà anche – appunto – per qualche motivo?
Da un lato, in questo mondo manicheo che si parla addosso, c’è una patetica quanto pericolosa visione edulcorata da Mulino Bianco (“Mollo tutto, apro un agriturismo e mi metto a fare marmellate“: sì, buonanotte), da un altro quella biecamente ideologica o partitica o propagandistica (“Maledetti, vogliono riportarci a fare i contadini nella campagna da cui eravamo scappati“). Nel mezzo, commentatori, giornalisti, cittadini ed elettori che non hanno mai calcato una zolla, impugnato una zappa, guidato un trattore e che non distinguono il grano dal granturco, accompagnati da quelli che non hanno nemmeno una vaga idea di economia agraria.
Poi c’è la questione, colossale, degli investimenti e dei capitali che avviare un’azienda agricola propriamente detta richiede, a meno di non volersi limitare alla fantasia piuttosto pietosa dell’agricoltore che lavora a mano il campicello per trarne quattro carote da rivendere al mercatino naturale all’angolo.
E vogliamo parlare del credito?
Ecco, a questo deserto di malizia e ignoranza è affidato il dibattito su una proposta senza dubbio bislacca, ma che potrebbe avere il merito di riaprire un ragionamento serio sull’utilizzo della terra, sulle politiche agricole da perseguire, sul consumo del suolo e sul recupero del medesimo a fini produttivi, sul lavoro in agricoltura, sul senso della ruralità e sulle prospettive ad ampio raggio del settore, in un paese che nuota nella retorica del “tipico” . E che potrebbe, invece, cominciare finalmente a parlare di agricoltura senza caricature.
Ma temo sarà l’ennesima occasione perduta.