di FEDERICO FORMIGNANI
“…la quotidiana esperienza ci mostra che trassero la propria origine dalla naturale inclinazione dell’uomo a sconvolgere l’ordine d’ogni singola società, tale essendo manifestamente lo scopo primario di tutte” (B.Biondelli). Breve viaggio nei gerghi malandrini…
Perché lingue furbesche? Una spiegazione ci arriva da Bernardino Biondelli, linguista vissuto nell’Ottocento che le ha studiate, se non metodi scientifici, con indubbio interesse e serietà.
Scrive Biondelli: “…considerando l’origine, lo scopo e l’indefinita varietà di queste lingue artificiali, noi le abbiamo tutte raccolte e designare col nome generale di “furbesche”, perciocché la quotidiana esperienza ci mostra che trassero più o meno la propria origine dalla naturale inclinazione dell’uomo a sconvolgere, in tutto o in parte, l’ordine fondamentale d’ogni singola società, tale appunto essendo manifestamente lo scopo primario di tutte”.
Il malandrino, il truffatore dei bei tempi andati conosceva l’importanza del tempo e del mutare delle stagioni. Sempre in corsa con sé stesso e con la società, non poteva permettersi eccessivi passi falsi che gli avrebbero negato il più elementare dei diritti: godere le veloci del lustro e della bruna, per quartane e marchesi. La veloce (ora), la troviamo sia di lustro (giorno) che di bruna (notte). Nel linguaggio furbesco il giorno ha anche altri termini: luminoso, specchio. Si intuisce facilmente come venga considerato qualcosa di appagante, per gli occhi e per il senso di libertà che ispira. Più tenebroso è il rapporto con la notte: chiamata bruna e anche materna perché assiste e protegge i suoi figli, intenti a lavori non proprio puliti. Le quartane sono le settimane (quattro in un mese) e il marchese è il mese. Il mondo è chiamato tondoso (e si spiega da sé) mentre l’estate è detta fumosa, forse per il gran caldo. Sopra ogni cosa, domina il soprano (il cielo). Ad essere sinceri, il furfante sa benissimo che in cielo c’è Sant’Alto (Dio) e sotto sotto lo teme: il suo rapporto con la religione è tuttavia complesso e ambivalente; può incontrare momenti di sincero abbandono – magari egoisticamente spinto da pressanti e terrene necessità – ed ecco allora che l’uomo furfante offre una moccolosa (candela) e raccomanda la propria perpetua (anima), detta anche devota. La rubiconda (vergogna) per il mal fatto non gli impedisce di santocciar (pregare), con il credo (speranza) che un mariano (miracolo) – bellissimo questo collegamento con la Madonna – gli consenta di raggiungere il monte e mare (paradiso). Per il resto, il suo rapporto con le autorità ecclesiastiche e con le pratiche religiose è piuttosto disinvolto. Chiama barbetta il frate che conforta i condannati e ciarliere le monache. Non sopporta la tediosa (predica), specie quella propinata al di fuori della santoccia (chiesa). Il cappellano rosso è il cardinale, mentre il Papa è chiamato grimo di santocchio (grimo sta anche per vecchio).
Nel suo studio Biondelli sostiene che il gergo furfantino abbia avuto origine ai tempi delle peregrinazioni religiose, epoca nella quale il libero vagabondaggio era diffuso e tollerato; da qui la necessità per i furbi disonesti di rivolgersi a sé stessi e ad altri utilizzando parole studiate apposta per sostituire i pronomi. Mia madre, simone e monarca stanno per “io, me” e “mi”; “egli” si traduce con sua madre, mentre nostra madre e nostroso stanno per “noi”. L’affermazione “si” viene indicata con Siena oppure cortesia (una risposta affermativa è sempre o quasi sempre cortese), mentre la negazione “no” fa Nicolò. Dai modi di comunicare con altri, ai nomi delle varie parti del corpo umano, anch’essi interessanti e curiosi. Cominciamo dalla testa, detta elmo; i balchi sono gli occhi, chiamati anche lampanti, luminosi (come i giorni). Gli orecchi erano detti campane; (stare in campana, di conseguenza, significava “stare attenti, vigili”). Il naso veniva chiamato mocoloso e la bocca morfia. Azzeccatissimi i nomi destinati alla lingua: dannosa, maldicente, serpentina. Il braccio era ala; rami le gambe, devoto il ginocchio (e si capisce perché), per finire con i calchi (piedi), da cui calcose (le scarpe) e calcosa (la terra). Il corpo umano, nel suo insieme, veniva chiamato fusto (vocabolo che ha incontrato una fortuna insperata), mentre il sangue veniva detto libera me:definizione davvero molto bella.
Possiamo completare il quadro della lingua furbesca o furfantina dando un occhio ai nomi dei personaggi che gravitavano nel mondo dei fuori legge. Il ladro, ad esempio, è chiamato in modi differenti: abbiamo il truccante (trucchi per ingannare il prossimo), il camuffo, il gatto (per l’agilità), il pescatore (nelle tasche altrui). Il malandrino è definito eufemisticamente cortigiano, individuo quasi sempre brutto (che sta per accorto, scaltro; niente a che vedere con l’aspetto fisico!); il mariuolo è chiamato barabba (ne sa qualcosa Gesù).
Tutta questa gente ruba a più non posso; rubare è verbo sacro, tra i furfanti furbeschi; esiste il verbo fare (generico) e bere (più mirato). Il vino è il furto, mentre il gonzo è l’individuo predestinato ad essere alleggerito dei suoi averi. Giusto contraltare dei malavitosi, sono gli uomini della Legge. Curiosi e indovinati, anche in questo caso, i nomi che li contraddistinguono: c’è il formica (tenero soldatino di fanteria) e ci sono i bracchi (sbirri, gendarmi), ostinati come segugi. Il dragoncino è il procuratore, mentre il magistrato è chiamato Pilato (con quanta simpatia, lo si capisce al volo!). Feroce addirittura è il nome con il quale si individua il cancelliere (cagacarte). Tutto un mondo completato dai compagni d’avventura (gli apostoli) e dalle immancabili spie (i soffia). Un mondo sempre in agitazione per il possesso del formaggio o polenta (l’oro) o dell’albume (argento). Il finale? Quasi sempre nella casanza (prigione).