di FEDERICO FORMIGNANI
Tra l’VIII e il XIII secolo anche la poesia fu protagonosta del lento cammino di trasformazione della lingua dal latino in volgare. Eccone alcuni esempi tratti da rari autori “padani”.

 

La lingua italiana subisce oggi mutazioni pressoché continue e l’analfabetismo di ritorno è espressione ricorrente. Si legge poco, si parla povero e ci danno fastidio le regole della grammatica. Gli addetti ai lavori – giornalisti, scrittori, editori, coloro insomma che hanno a che fare con la comunicazione – sono i vigilati speciali e a loro si imputano colpe che per amore di verità andrebbero allargate anche alla famiglia e alla scuola. Discorsi infiniti e ricorrenti, quelli che vertono sulla comunicazione tra persone, discorsi che non di rado si esauriscono nella noia dell’indifferenza perché i giovani hanno orecchie ed entusiasmi per parole e suoni differenti.

La lingua e la poesia, nel tempo e nella percezione umana, vengono recepite e assimilate in diversissime forme e differenti contesti. Per seguirne i primi passi, facciamo allora un salto indietro di poco più e poco meno di mille anni.

Il latino classico sopravvive come lingua scritta nei documenti ufficiali, mentre quello parlato naviga verso un volgare che muta col mutar di zona. Nella Pianura Padana già prendono forma alcune differenze che si accentueranno sempre più, dando vita alla selva dei dialetti. Chi non ci dice che possa essere esistito, fra i probabili e innumerevoli esercizi di scrittura e poesia, qualche autore di notevole bravura, degno di generale considerazione? E come escludere abbia raggiunto notorietà proprio utilizzando le parole nuove del volgare, intrise tuttavia di logiche tracce latine, per di più influenzate dalle nascenti espressioni vernacolari?

Qualche esempio ci può aiutare a comprendere gli autori del basso-alto medioevo.

L’Indovinello Veronese è forse l’atto di nascita del volgare, anche se la persistenza del latino è abbastanza evidente. Da un codice redatto in Spagna all’inizio dell’VIII secolo, la composizione, che parla del lavoro nei campi, giunge a Verona e da qui si diffonde: “…se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba” (teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava).

Ma è dopo il Mille che i vari testi prendono forma e sostanza. Fra il 1167 e il 1177 Uguccione da Lodi, ritenuto il più antico poeta lombardo, scrive: “…ancoi è l’om alegro, doman è traversadho de questo mond a l’altro, sì com’è destinadho” (oggi l’uomo è allegro, domani è trapassato da questo mondo all’altro, come è destinato). Verso la fine del XII secolo troviamo i caratteri distintivi delle parlate padane occidentali nei Sermoni Subalpini: “…car Dominidé, non est mia endeignos de recevre zo que hom po far” (caro Signore, non è mica indegno accettare ciò che l’uomo può fare); abbiamo la caduta delle vocali finali (hom, far) e la totale lenizione (mia) delle consonanti intervocaliche. È la volta di Girardo Patecchio (Girard Pateg) da Cremona, attivo all’inizio del 1200: “…la femena fa l’om envrïar col vino, fal desperad e nesio e fal tornar plui fino” (la femmina fa ubriacare l’uomo con il vino, lo rende disperato e stolto e lo fa tornar più fino) dove “fino” va interpretato come “raffinato”. Anche un anonimo veronese si cimenta su analogo tema: “…la femena è contraria d’ogno castigamento, pessima e orgoiosa e de forte talento”(la femmina è contraria ad ogni costrizione, è pessima, orgogliosa e di forte talento). Pietro da Barsegapè, “fanton” (soldato) coevo del Bonvesin, dà persino voce al serpente tentatore: “…perqué no mangi, madona Eva, del fruito bon del paradiso? È molto bello, zo m’è viso” (perché non mangi, Madonna Eva, del buon frutto del paradiso? È molto bello, questo è il mio parere), evidentemente interessato! Infine ecco il famoso Bonvesin de la Riva, che elargisce consigli perentori e un po’ pedanti su come comportarsi a tavola: “…stà conzamente al desco, cortese, adorno, alegro e confortoso e fresco; no dì stà cuintoroso, ni gram, ni travacao, ni col gambe incrosae, ni tort, ni apodiao” (stai composto a tavola; cortese, in ordine, allegro, di buon umore e vivace; non devi apparire pensieroso, né scontroso e sdraiato all’indietro, né con le gambe accavallate, né seduto di traverso o appoggiato alla tavola). Così facendo, il convivio avrà sereno svolgimento.

Non è difficile leggere, nel primo italiano di Bonvesin, autentici lombardismi quali “gram, travacao, incrosae”. Ma capivano tutti, perché questa era la lingua parlata, pur se in perenne, continua evoluzione.