di FEDERICO FORMIGNANI
Nell’800 Fu Bernardino Biondelli a redigere il vocabolario del “Linguaggio dei Fiori”, lingua-non-lingua usata dalle ospiti dell’harem per esprimersi di nascosto agli eunichi di guardia.
Lo storico veronese Bernardino Biondelli (1804-1886) autore di un saggio sui dialetti gallo-italici e di uno studio sulle lingue furbesche, così definisce il “Linguaggio dei Fiori”: “…un poetico e strano linguaggio con cui le infelici odalische, nei profumati harem, sogliono ingannare la noia d’una vita di privazioni e di desideri e celare i propri sospiri alla vigilanza degli evirati loro custodi”.
Per comunicare e fantasticare, più tra loro stesse che con estranei, le “odalische” del Biondelli creano questo tipo di lingua che lingua non è, beninteso, ma che alla fine assolve con successo il compito per la quale è stata pensata: ogni parola, infatti, racchiude una frase di significato più o meno compiuto.
L’amore è il primo dei pensieri e dei messaggi: molti vocaboli esprimono passione e desiderio per l’uomo. Si parte da un allusivo pistacchio (più ti veggo e più mi innamoro) e subito si promette penne (io raddolcirò le tue angosce). Per rassicurare l’amato non si può evitare, a un certo punto, di sussurragli corallo (la mia anima è sempre a te vicina). Più la pressione amorosa sale, più gli inviti o i messaggi diventano espliciti: piombo, tabacco, sangue di drago, che, nell’ordine, vogliono dire: “tu m’hai inebriato d’amore; il mio cuore t’adora; anima dell’anima mia, te solo adoro”. Un tale crescendo di sentimenti e dichiarazioni non può che condurre alla parola miele (prendi il mio cuore), subito mitigata con il vocabolo gelsomino (amami quanto io t’amo), frase nella quale già si avverte l’esigenza di essere contraccambiati e la preoccupazione che ciò possa anche non avvenire.
Avvalendosi dei pettegolezzi delle donne greche ed armene che avevano accesso al Serraglio del Gran Signore, Biondelli scopre che la lingua usata è quella turca e che le parole attorno alle quali ruotano i successivi codici di interpretazione (altre parole ancora), sono essenzialmente due: kalèm (la penna, che vergherà i messaggi) e melhèm (l’angoscia) che quasi sempre ne accompagna la stesura. Non sono poi estranei alla concezione poetica occidentale i parametri che vengono considerati per la creazione di tale linguaggio: il colore verde, infatti, è sinonimo di gioventù e speranza; bianco giglio indica innocenza, candore; mammola vuol dire pudore e bottone di rosa indica la verginità, un fiore non ancora dischiuso.
Dal turco hàrem, arabo haràm, il cui significato iniziale sta per “proibito” e in seguito arriva a indicare “il luogo delle donne dove gli uomini non devono andare” (pena la morte), proviene la parola italiana àrem (sostantivo maschile invariabile) che indica un serraglio per le donne (…in Turchia, aggiunge prudentemente Angelico Prati, compilatore di un vocabolario etimologico italiano!). Nell’anno 1846 Biondelli usa il vocabolo preceduto dalla giusta “h”, mentre gli ambasciatori veneti del XVI secolo lo chiamavano càrame, a differenza di D’annunzio che conia il termine àremme; vocabolo nato nello stile del poeta ma di poca o nessuna fortuna. Tra un sospiro e l’altro delle ospiti forzate del Sultano, si sviluppa, furoreggia e muore il “linguaggio dei fiori”. Oggi gli harem non esistono più (o ci sono sotto diversa forma!) e rileggere come si svolgevano questi dialoghi può far sorridere ma impone anche qualche riflessione sull’evolversi della vita e delle tradizioni in paesi non poi tanto lontani dal nostro.
Il dialogo può avere inizio con una parola d’invito: ago (ascolta quel ch’io ti dico); oppure di consiglio: cerasa (ragioniamo un istante) o addirittura di gelosia: filo d’oro (non rivolgere altrove il tuo sguardo). Talvolta è l’umiliazione a prevalere; ecco allora che la donna ricorre a parole diverse: color arancio (non ti burlar di me) oppure caffè (cessa dal prenderti gioco di me). La gamma delle sensazioni e degli stati d’animo è pressoché infinita e ogni situazione richiede l’adatto vocabolo. All’inizio la donna tenta di reagire e di eliminare la causa delle sue sofferenze; prima un invito: nube (bandisci la mia immagine dal tuo cuore), invito che diviene perentorio con seta (vattene, ch’io più non ti rivegga), arrivando ad una confessione che odora di liberazione: fico (la tua catena m’opprime). Là, gliel’ho detto! Ma poi, si sa, l’amore prevale e si torna all’attacco ma con una diversa tattica: farina (il mio cuore è lacerato); arriverà a commuoversi? No; è un duro. Non resta che dirgli, con un filo di voce: zucca (abbi pietà della mia situazione). Spulciando il vocabolarietto del Biondelli, si scopre che la parola maggiormente ricorrente è organzino (ho affidato il mio destino alla provvidenza).