di FEDERICO FORMIGNANI
Anche per “quella” partenza il dialetto meneghino conosce, e soprattutto conosceva, espressioni piuttosto colorite, che attingevano a una società e a un mondo ormai scomparsi.
Nella Milano dei tempi andati era d’uso fa dà i bott (far dare i rintocchi di una campana) per chi stava morendo. Come tutti i servizi della terra, anche questo si pagava. Forse un po’ troppo, tant’è vero che Carlo Porta scrive al riguardo: “…quell traffegh de angonji, on tant al bott, e quell fa mai nagotta per nagott” (quel traffico di agonie, un tanto al tocco, e quel fare mai niente per niente).
Poi al predestinato, malgrado il momentaneo miorament de la mort (miglioramento della morte) avviene de tirà el reff, l’anta, i colzett (“tirare” il filo, l’imposta della finestra, le calze); vale a dire: morire. I milanesi usano espressioni colorite per tradurre un verbo in fondo un po’ triste qual è morire; i toscani non sono tuttavia da meno, col loro rotondeggiante andare a babboriveggoti, vale a dire a rivedere il babbo, ammesso che se ne sia andato lui per primo.
Un tempo, lo sappiamo, il tenore di vita era di molto più povero rispetto ai tempi attuali, quindi al morto indigente capitava de trovass in su l’assa (trovarsi sull’asse, nudo!) arnese questo d’uso comune in dotazione ai portinai degli stabili, come prescrivevano le norme municipali. Un po’ di compassione il morto la riceveva dai vicini di casa con il commento el se nanca vanzà de morì cont la camisa (non gli è stato nemmeno concesso di morire con la camicia); uno sfortunato totale, penalizzato da un’esistenza precaria.
Compiuto l’ultimo viaggio sul carretton (carrettone collettivo), il defunto finisce al foppon (fossa comune) parola questa che arriva diritta dalla fovea latina. Il più popolare foppon dell’epoca è quello de Porta Tosa (Porta Vittoria) che accoglie i morti del non lontano Ospedale Maggiore di via Festa del Perdono e verrà chiuso in via definitiva nell’anno 1829. Gli altri cimiteri sono disseminati un po’ ovunque: dal Gentilin fuori Porta Ticinese – che il popolo chiama affettuosamente el fopponin, al San Gregori di Porta Renza (l’odierna Porta Venezia); dal San Gioann di Porta Vercellina alla Moiascja – che significa pantano – di Porta Comasina, l’attuale Porta Garibaldi. Quest’ultimo cimitero è il più malfamato: vi vengono seppelliti i ladri, gli assassini giustiziati.
In dialetto milanese il cimitero è sempre detto campsant (camposanto) e quindi foppon; in tempi più recenti è divenuto d’uso comune anche la parola cimiteri, resa celebre da una lirica di Delio Tessa:
“2 novembre, l’è el dì di Mort, alegher!” (2 novembre, è il giorno dei Morti, allegri!), che così inizia: “…torni da vial Certosa, torni di Cimiteri, in mezz a on someneri de cioccatee che vosa, de baracchee che canta e che giubbiana in santa pas, con de brasc la tosa”(…torno da viale Certosa, torno dai cimiteri, in mezzo a un semenzaio di avvinazzati che vociano, di festaioli che cantano e che scherzano in santa pace, a braccetto della ragazza).
La fossa comune cessa di esistere nel 1840 e dal 1869 i parenti possono andà dree al mort (seguire il funerale) che è così dedicato al loro parente o amico e non a più defunti, tutti insieme.
Fino all’anno 1910 dura la figura e la funzione del lanzian (l’anziano, anche se il lanzian, in milanese, sta per uno che spia le mosse e i fatti degli altri; un vero ficcanaso!); questo lanzian è dunque un signore rispettabile che segue – per conto dei congiunti e a pagamento, va da sé – l’ufficio funebre sino alla sepoltura che avviene ad opera dei sepoltoo, detti in seguito sotterroo (becchini). Fà el corp vuol dire fare un funerale, dato che l’oggetto di questa cerimonia è proprio il corpo del trapassato. Se un funerale è ricco, può disporre di adeguato seguito munito di torc e candìr (torce e candele) oltre che di sonador de banda, coristi e stellìn (suonatori di banda, coristi e stelline), le ragazzine orfane ospiti di un celebre istituto cittadino: si tratta in questo caso di on corp de prima class (funerale di prima classe). Se il morto è al contrario un povero diavolo, si ricorre al corp de carità (funerale di carità): un modesto carro funebre trainato da un ronzino che a sua volta accompagna i passi dell’unico sacerdote officiante.