di FEDERICO FORMIGNANI
Invenzione delle lingue e lessici di fantasia viaggiano da sempre in parallelo, tra onomatopea e follia, utopie e contaminazioni: dai pidgin al lessico dei pazzi, dal “marziano” al tribale.
Per rendersi conto dell’ampiezza del fenomeno “lingua”, scriveva il linguista Mario Lucìdi (1913-1961), è opportuno considerare due casi limite: da una parte un’interiezione, realtà carica di valore espressivo ed essenziale nell’attuarsi vivo di ogni singola lingua, ma in un certo senso estranea al sistema linguistico; dall’altra una formula di alta matematica – entità per eccellenza compiutamente semantica – per la quale, tuttavia, il supporto di una lingua come realtà storica attuantesi foneticamente è così secondario che, nei riguardi del suo essere, non è rilevante in quale lingua debba essere letta.
In realtà la lingua, i gerghi, le espressioni verbali in genere, rappresentano un immenso dominio che oscilla costantemente, con infinite variazioni, fra questi due poli: l’espressione pura e la pura relazione. L’invenzione linguistica, quindi, è fenomeno di amplissima diffusione e, come tutto ciò che è umano, degno di indagine storica.
Buona parte di inventiva e artificialità è presente nei cosiddetti “pidgin”, lingue miste, gergali, studiate a fondo dall’americano Robert Hall. I pidgin rappresentano una vera e propria “miscela” tra due o più linguaggi : c’è il pidgin inglese-cinese, esiste il malese-bazar dell’Indonesia, c’è un pidgin melanesiano, un creolo franco-haitiano, il pidgin russo-norks (norvegese, ora scomparso).
Vediamo qualche esempio, cominciando dal pidgin cinese: nella frase “ten day more belong too long time; my wantchee vely quick”, persino la fonetica inglese è adattata a quella cinese che è priva della lettera “r”; la frase, tradotta letteralmente, significa: “più di dieci giorni è troppo: ne ho bisogno subitissimo”. Altri esempi interessanti: nel creolo di Haiti dicono “maman-ma vin rive sòt lavil” (dal francese “mama-ma vient arriver sort la ville”), ossia “la mamma è arrivata in città e tutti sono contenti“. Un secondo esempio tratto dal creolo-melanesiano: la frase inglese “bring him he come” (portalo qui, fai in modo che venga), diventa “bringim i-kem” (portalo qui), mentre “kartim i-go” significa “portalo via”.
Lingua inventata o gergo fantastico è anche quello studiato dallo psicologo triestino Eugenio Tanzi (1856-1934), che ha raccolto oltre duecento neologismi o nuove parole create da alcuni pazzi in numerosi manicomi italiani. Alcune sono vere e proprie invenzioni linguistiche che vengono ignorate solo perché non sono lingue di società. Un paio di esempi: “dominusmotspherifateur”, specie di enorme parola magica composta, di ignoto significato. Un paranoico particolarmente brillante pronunciava una formula e scongiuro così concepito: “…pitroskoi marabiska, patomba lemba zagamba, strapùlika!”. Un altro ricoverato sosteneva che l’alveatico era una specie di nube rarefatta che, avvolgendo la testa del malato, lo trasformava in una persona diversa. Per quale motivo? Perché questa operazione costituiva la “conquitescenza mirtica dell’alveatico”. Poi c’è il “marziano” della Signorin Smith, ginevrina di origine ungherese, studiata da un medico svizzero verso la fine dell’Ottocento, che parlava solo francese ma nelle sedute spiritiche colloquiava col marziano Espenìe, trascrivendo alcuni vocaboli del pianeta lontano: metisc (uomo, signore); mizaime (fiori); finaime (profumi); briima (parola); atev kavive (esseri strani) ed altri ancora.
Si può concludere con alcuni dei molti linguaggi tribali di comunità asiatiche (indiane, indonesiane, malesi ecc.). Soltanto per la Malesia si potrebbe quasi redigere un dizionario della lingua degli uccelli: dalle semplici interiezioni quali “ha-ha-ha”, per arrivare a frasi più complesse. Da quelle parti c’è un uccello chiamato “addio ragazzi”; quando apre bocca dice “tinggal anak” che sta per “addio bambini”; un altro uccello ancora pronuncia (o canta):“diam ‘kau, tuah”, parole che significano “sta zitto, Tuah!”. Queste sono ovviamente interpretazioni nate dalla fantasia dei primitivi che associano i canti dei volatili alle parole della lingua o dialetto da loro usato.
Nell’Ottocento abbiamo un dotto filologo tedesco che mescola tedesco e latino e compone un personale Padre Nostro: “…o baderus noderus, ki du esso in seluma, fakdade sankadus ha nominanda duus; adfenade ha rennanda duus…”. Tra le molte altre lingue inventate un po’ dappertutto possiamo ricordarne, per concludere, due: il Volapük del prete cattolico tedesco Johann Martin Schleyer; una lingua dalla quale aveva eliminato la lettera “r”, per facilitare i cinesi (!), quindi la Lingvó Internàcia (Esperanto) del medico oculista ebreo-polacco Ludovico Zamenhof, ancor oggi la più diffusa delle lingue artificiali o inventate. Zamenhof era di Bialystok, oggi in Polonia, un tempo divisa in quattro quartieri con lingue differenti: russo, polacco, tedesco ed ebraico (Yiddish). Voleva solo che si capissero meglio, forse paventando quello che sarebbe in seguito successo.