di FEDERICO FORMIGNANI
Le memorie di un anonimo mercante milanese che nel XVI secolo girò l’Europa per affari sono interessanti anche per la storia della lingua: come ci si capiva e che idiomi si parlavano? 

 

Sempre a proposito delle memorie di viaggio dell’anonimo mercante milanese che nel Cinquecento girò mezza Europa, Luigi Monga, lo studioso italiano che ha interpretato e pubblicato il manoscritto “Add.24180, British Library”, illustra così lo stravagante personaggio: “…è la testimonianza di un viaggiatore attento, intelligente, inquisitivo, pronto a notare quanto gli pare degno di nota, senza lasciarsi mai prender la mano da stupori ingenui, senza limitazioni di sorta nei suoi interessi”.

Un aspetto interessantissimo delle sue note e niente affatto secondario è però anche quello del linguaggio. Non si può dare infatti per scontato che gli incontri fossero di facile comunicazione tra le parti: lingue nazionali in costante evoluzione, dialetti diversificati per ogni lingua e loro ridotta presenza in aree geografiche omogenee e, infine, istruzione limitata a un’élite di persone appartenenti alle fasce sociali di potere.

Il nostro mercante milanese, il cui viaggio dovrebbe esser stato compiuto tra il 1517 e il 1519, impiega per i suoi appunti un italiano abbastanza ricco di vocaboli e sufficientemente corretto. Le incertezze grafiche che accompagnano la stesura del diario, sono la norma per quei tempi; non ne vanno esenti nemmeno i letterati. L’anonimo doveva conoscere, oltre all’italiano, un discreto latino che, qua e là, accompagna certe descrizioni (ad delectationem populi, ubi conveniunt mercatores, eccetera). Avendo viaggiato per lungo tempo in Francia e Spagna, con tutta probabilità conosce quanto basta di questi due idiomi per riuscire a comunicare con la gente e poter svolgere in modo efficace i propri traffici. Non risulta, per contro, possa aver avuto dimestichezza col fiammingo e con l’inglese. Quello che invece praticava, in maniera del tutto naturale, era il dialetto della sua città, della sua regione.

La cronaca è letteralmente infarcita di parole vernacole lombarde:  niente ci vieta di immaginare, infatti, che il nostro uomo pensasse addirittura in dialetto, tanta è la consuetudine che denuncia nei confronti della parlata di casa. Vediamo dunque alcuni esempi davvero significativi. Fra i verbi, troviamo scochare (dondolare), cattare (cogliere), messedarsi (mescolarsi), adaquare (innaffiare), stoppare (turare), scodere (levarsi, togliersi). Molte sono le parole lombarde che si riferiscono all’abitazione o a differenti parti di essa; ecco allora, partendo dai piani meno nobili, la canepa (cantina), i solli (soeull, pavimenti), magari fatti in sarizo (selce). Per l’arredamento, ecco i restelli (cancelli), le invidriatte (vetrate), le ante (imposte). Nella camera da letto c’è il moschetto (baldacchino); l’edificio finisce con l’astrecho (copertura). Negli spazi circostanti la casa vi sono i gabannotti (capanne), le medde (cataste) ovviamente di legname e l’immancabile caponera (stia) per gli animali da cortile. La casa, si sa, non è solo un insieme di pietre e mattoni. È anche foco (nucleo familiare), nel quale convivono la vegia (vecchia, nonna), il fiolo (figlio) e il nipotino, detto teneramente picinino (piccolino). Non lontana dall’abitazione c’è la giesa (chiesa) per colloquiare col Signore, naturalmente in genogione (in ginocchio), anche quando il tempo è inclemente e tutto è ricoperto dal giazo (ghiaccio).

Il nostro mercante, nel corso dei suoi viaggi, ha senza dubbio frequentato molte abitazioni e molti negozi, botteghe. Ne fa fede l’elencazione di parole che si riferiscono a indumenti, tessuti. Ecco il sugacapo (sugacoo, velo), lo zendale e lo stametto (panno), le cibre (scarpe, pantofole), il buratto (panno molto leggero), il berriolo (berrettino). Sempre nelle abitazioni non mancano i celostri (ceri), il vasello (la botte), la brenta (misura per il vino) e il tazzone (grande recipiente) per travasarlo. Vediamo gli ultimi vocaboli, così milanesi, così immediati: la ranza (falce), la resegha (sega), il sedelino (secchiello).

Non sono solo le parole quelle che lo tradiscono. Il suo scrivere è zeppo di lombardismi morfologici. I verbi al condizionale finiscono in “ria” (sarìa, andarìa), mentre il congiuntivo presente di “dare” fa dagha, per finire con la forma pronominale ghe (non ghe ne sono che due). All’epoca della cronaca manoscritta del mercante di Milano, Dante aveva già dato nobiltà al toscano, elevandolo al rango di lingua nazionale. Lingua usata da tutti, da allora in poi. Ciò non di meno, nel “toscano” impiegato dall’anonimo milanese, non è difficile scoprire l’originale matrice dialettale lombarda, nata con lui e da lui esportata in tutta Europa.